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Il 27 gennaio del quarantacinque l’Armata Rossa abbatté i cancelli di Auschwitz. Da allora le immagini della barbarie nazista sono rimaste scolpite nella nostra memoria collettiva come il monumento alla massima espressione della ferocia umana. Chi nell’udire semplicemente nomi quali Auschwitz, Mauthausen, Birkenau, non rievoca mentalmente orrori indicibili? Il ricordo dei fumi inquietanti che salgono dai forni crematori ci dicono che la folle soluzione finale è stata compiuta. Quello delle alte mura, dei fili spinati, delle misere baracche di legno, dei cadaveri ammassati e dei corpi scheletrici umani che incedono con passo da zombie sulla neve nudi o coperti da divise a righe numerate, ci urlano che nei lager è stata consumata un’immane tragedia. Quei capi rasati e quegli occhi allucinati di chi ha visto e subito l’inaudita ferocia di altri uomini, ci urlano e ci obbligano di fare in modo che tutto questo non deve accadere mai più! Mai più!

  Pietà e incredulità sono ogni volta i sentimenti che sconvolgono le nostre anime nel rivedere simili orrende immagini. Immagini di ebrei ma anche di oppositori politici,  zingari, omosessuali, malati di mente e handicappati, deportati nei campi di concentramento e sterminati con metodo scientifico per purificare l’umanità dagli indesiderabili per i teorici della supremazia della razza ariana. In nome di tale folle supremazia uomini hanno privato della libertà, della dignità e della vita altri uomini! Milioni di uomini, di donne e di bambini sono stati confinati in un inferno di immenso dolore a cui solo la morte poteva porre fine. Se questo è un uomo, ci esorta a riflettere Primo Levi nella sua poesia e nel suo racconto di sopravvissuto nel campo di concentramento di Auschwitz. “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nomi, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo, come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole, scolpitele nel vostro cuore, stando in casa, andando per via,  coricandovi, alzandovi. Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”. Terribile monito per chi tende a dimenticare, a non informarsi e a non impedire il ripetersi di simili orrendi massacri.

  Ogni giornata della memoria deve servire dunque a scolpire nel cuore e a rammentare di quali orrori è capace l’uomo e adoperarsi affinché non li ripeta mai più. Dopo 72 anni non si sono ripetute le shoah, o gli olocausti che dir si voglia, per fortuna; ma direste che tutti gli uomini abbiano scolpito nel cuore la parola amore al posto della parola odio? A giudicare dalle tante guerre e genocidi che si sono succeduti potremmo proprio dire di no! In Vietnam, in Afghanistan, in Israele e nella Palestina, nella ex Jugoslavia, in Iraq, e più di recente in Siria, in Libia e nel resto dell’Africa, e considerando i disordini sociali, le disuguaglianze e la povertà nel mondo, non sembra che l’uomo abbia fatto molti progressi umanitari. Violenze di ogni genere disseminano la terra di dolore. Violenza tra uomini, violenza sulle donne, violenza sui bambini, sugli animali, sull’ambiente. Ma quante celebrazioni simili a questa di oggi sono necessari affinché il genere umano smetta di sterminarsi, di avversarsi e di distruggere per i più assurdi e stupidi motivi? Motivi riconducibili in ultima analisi al suo sconfinato ego e all’egoismo estremo che ne consegue. Amare e porsi invece dal punto di vista del noi piuttosto che di quello dell’io, uscire dall’istintivo egocentrismo e accrescere la compassione che scaturisce dalla spiritualità propria dell’anima, significa maturare l’altruismo e quindi creare le basi per una duratura pacifica convivenza del genere umano. 

 

  Angelo Lo Verme