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Da oltre due anni siamo impegnati nell'esegesi del Jobs Act. Una riforma con pochissimo job e molto act(ion), abbastanza profonda e traumatica, deliberatamente sovvertente le consolidate acquisizioni della tradizione giuridico-sociale post-costituzionale. Un cambio di orizzonte che propone un modello di lavoro e uno del suo diritto dichiaratamente ispirati ai principi di flexsecurity o, in altri termini, al passaggio dalla property rule alla liability rule, cioè dalla tutela reale della situazione personale alla mera tutela risarcitoria-monetaria. Tutto ha un costo nell'economia e tutto dev'essere preventivabile nella forsennata competizione dell'economia globalizzata. Così tutto ha, deve avere un prezzo e a tale regola non si sottrae più neanche il lavoro, sebbene si usi lo stratagemma degli anglicismi per nascondere il vero nome dei fatti.
Una legge delega, otto decreti legislativi e una normazione concorrente e integrativa in larga parte ancora a venire, tengono impegnato lo studioso; molto sulla flex e ancora poco e niente sulla security. E lo distraggono dall'interrogarsi sulle non più magnifiche né progressive sorti dell'amato.
Mercati, competizione, globalizzazione, libertà sono i mantra neoliberisti del terzo millennio recitati contro chi si ostina a immaginare che essi – fatti con cui innegabilmente ci si deve confrontare – possano e debbano essere recessivi rispetto alle necessità della Giustizia Sociale. Chi dunque osasse dubitare dell'opportunità di un siffatto intervento demolitore, dato il nostro tessuto socio-economico, fortemente segmentato, anche geograficamente, affatto diverso da quello del nord-europa, in cui pure la flexicurity è stata sperimentata con qualche successo, verrebbe messo a tacere con il fatale «è l'Europa che ce lo chiede». Chi osasse mettere in dubbio che la nuova regolazione abbia mercificato il lavoro dandogli un prezzo e così mortificato lavoratori e lavoratrici verrebbe messo a tacere con l'altro slogan «in tutta Europa è così»: e se lo dice l'Europa dovrà essere giusto perché, come direbbe Boxer, il mitico lavoratore di Orwell, l'Europa ha sempre ragione. Due slogan in effetti, nulla di più, con cui gli Squealer di codesti riformatori compulsivi, votati alla palingenesi mettono a tacere le voci dissonanti. Perciò in questo quadro di desolante conformismo vogliamo fermarci a riflettere sul lavoro e sul suo diritto per sé stessi: epistemologicamente sulla loro dimensione antropologica e su quella sociale, proprio come lo sono le dimensioni dell'Uomo e del diritto. L'uno è della societas costituente ma l'altro, il diritto, dalla societas il primo deve difendere: al di là e al di qua di ogni specifica contingente episteme. Per farlo abbiamo scelto la strada del dialogo tra saperi. Tra saperi che con il lavoro e il diritto, questa volta non solo il suo, hanno in comune la dimensione personale e quella sociale. Il sapere biblico, sapere antico che, al di là delle personali convinzioni religiose, è il nostro humus colturale comune. La letteratura, chiave per intendere la realtà, straordinario strumento di conoscenza dell'uomo e del diritto, perché direbbe Sciascia, «nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende». E ancora la chiave storica, la nostra memoria contro l'oblio e la manipolazione del potere, talvolta perfino involontaria e, non da ultimo, la chiave filosofica, senza la quale semplicemente non saremmo.
Diritto Bibbia Letteratura. Imagination against facts direbbe il Dickens di Hard times. Trovare il ponte tra presente e passato per “l'altro diritto possibile” di G. Steiner attraverso gli strumenti dell'analisi narrativa come ci suggerisce il R. Cover di Nomos and narrative.