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Gaetano Basile ci porta alla scoperta della storia e delle storie di “Palermo e i suoi fiumi”. Ancora una volta lo storico e giornalista ha in servo per noi tantissimi racconti, tutti da scoprire.

“Palermo e i suoi fiumi” alla maniera di Gaetano Basile

In occasione del Festival RestART, Basile è stato protagonista di una serie di appuntamenti presso l’Archivio Storico di Palermo. Una location suggestiva, per altrettante storie suggestive sul capoluogo e le sue peculiarità.

Dopo “Palermo e il suo mare“, è stata la volta di “Palermo e i suoi fiumi“. Ebbene sì, perché la città ha un rapporto molto profondo con i suoi fiumi: esiste una bellissima pianta di Palermo, fatta da Domenico Campolo nel 1725, in cui si vedono i suoi due fiumi e “questa lingua di terra che sembra il dorso di un coccodrillo che affiora. Questa era la città: questa lingua di terra che aveva un fiume da un lato e un fiume dall’altro” ci racconta Gaetano Basile.

Papireto

Il fiume più breve era il Papireto, che nasceva dal bacino il cui nome abbiamo deformato in “Danisissi“. C’era acqua in abbondanza, che formava un laghetto in cui crescevano i papiri, piante eccezionali e anche siciliane. Leggenda narra che nel Papireto ci fossero anche i coccodrilli: “Ma quando mai!”, precisa Basile.

In realtà gli animali esotici erano insegna di chi vendeva prodotti coloniali, quindi c’era chi aveva il serpente, chi la testa di una scimmia. I Florio, ad esempio, misero come insegna un leone che beve nel fiume, ma mica il leone fu mai a Palermo. A proposito di leggende, ce n’è un’altra, raccontata da Pitrè “Che dice che il Papireto in effetti pare fissa (cioè “fesso”), ma nasconde un canale che è collegato direttamente con il Nilo“, racconta ancora Basile.

Il Papireto, a un certo punto, venne interrato, perché ogni volta che pioveva molto, si verificava un’alluvione: “Venne interrato, si fece un canalone ed è uno di quei fiumi che ancora vanno a finire al porto”.

Kemonia

L’altro fiume, il Kemonia, è altrettanto importante: nasceva da un altro bacino imbrifero, nella zona che si trova alle spalle di Palazzo d’Orléans: “Tutta questa zona che arriva fino al civico, alla Filiciuzza, agli ospedali di quella zona, era il bacino imbrifero del Kemonia, che aveva lo stesso difetto del Papireto”. Non appena pioveva, si verificava un’alluvione, quindi si presero gli opportuni provvedimenti.

Si interrò pure quello, però quello invece di farlo finire a mare, fu fatto un canalone che deviava verso il fiume Oreto, passando da corso Tukory, per capirci”, ci spiega Gaetano Basile. Il letto del Kemonia era l’odierna via Castro e aveva delle rive fertilissime: lì ci furono i primi orti palermitani, all’epoca dei saraceni. Vi si piantava, ad esempio, la canna da zucchero: in memoria della lavorazione dello zucchero di canna, a Palermo, c’è ancora “Piazzetta dello Zucchero“.

Petronciane e Parmiciane

E poi c’erano le melanzane: tra le tante colture che ci portarono gli arabi, c’era quella della “badingian“, cioè la “milinciana“. Il problema, però, è che non aveva le istruzioni per l’uso, quindi i nostri nonni la mangiavano e morivano a causa dell’altissima concentrazione di solanina.

Decisero, dunque, di chiamarla “mela insana”, melanzana. Il destino di questo prodotto cambiò con l’arrivo dei padri carmelitani, che arrivavano dalla Palestina e portarono un altro tipo di melanzana, che si era modificata geneticamente da sola. Doveva sempre essere cucinata, ma aveva meno veleno: fu chiamata “petronciana“.

Il nome rimase fino al 1940, anno in cui l’Accademia d’Italia riunì il proprio consiglio per cambiare il lemma nel vocabolario della lingua italiana. Venne abolito il nome di petronciana e fu sostituito da melanzana perché era il nome con cui era conosciuta oramai dappertutto.

La melanzana fece la fortuna dei palermitani: nel terreno che c’è fra San Giovanni degli Eremiti e l’ospedale dei Bambini, cresceva in abbondanza la “Durona nera di Palermo”. Una melanzana nera, dalla pelle lucida, perfetta per fare la “Parmiciana“. Già, con la “c”. Il nome del piatto, infatti, deriva da “persiana”, perché le fette di melanzana erano messe come le scalette di una persiana.

La povera Durona Nera Palermitana venne abbandonata, per cedere il posto ad altre varietà di melanzane, che producono di più e richiedono molta acqua. Di recente, grazie a un progetto presso l’Ospedale dei Bambini, è stata piantata dai piccoli pazienti.

Fiume Oreto

Per cominciare a parlare dell’Oreto, Basile ricerca le origini del nome: “Il marchese di Villabianca disse che si chiamava Oreto perché lì si trovavano delle pepite d’oro, ma non pare fosse così. Uno che forse invece c’azzeccò fu Tommaso Fazello, il quale disse che il nome è semplicissimo: in latino, Oretus significa “nato da una montagna”, perché in effetti nasce su una montagna alle spalle di Pioppo-Monreale”.

Questo fiume diventò celebre, curiosamente, grazie a Polibio. Anche lui infatti, si interessò a Palermo che, nel 251, fu teatro di uno scontro incredibile fra i Cartaginesi e i Romani. I Romani erano a Palermo, i Cartaginesi stavano scendendo al di là del fiume Oreto e avevano gli elefanti. Addirittura si parla di 50 elefanti, c’è chi dice anche di più.

Comunque questi elefanti furono il terrore dei soldati romani, quindi Cecilio Metello fece subito costruire dei fossati e diede ordine di attaccare soprattutto gli elefanti, colpendoli con frecce e giavellotti. Le bestie ferite non obbedirono più al loro conduttore, tornarono indietro e andarono a morire al di là dell’Oreto.

In seguito si fecero degli scavi e si trovarono le loro ossa. “Naturalmente i nostri nonni non avevano letto Polibio, non sapevano di una battaglia del 251 avanti Cristo e allora interpretarono sempre le cose a loro favore: ‘Di chi sono queste ossa così grandi e gigantesche?’. Risposta corale: ‘Sono dei nostri nonni‘, e nacque la leggenda dei nostri avi giganti“, spiega ancora Basile.

La credenza sui giganti andò avanti fino a quando, nel 1831, Domenico Scinà scrisse un trattato, spiegando che quelle sono ossa di elefanti. Ancora si trovato al Museo Gemmellaro.

Cosa si pescava nei fiumi di Palermo

Tornando al fiume Oreto, Basile spiega anche che era molto più importante del Papireto e del  Kemonia, perché era pescoso. “C’era molta vita in acqua e addirittura, attraverso gli scritti del De Giovanni, del Marchese di Villabianca, sappiamo che c’erano anguille, cefali, tinche, carpe, il persico reale e la bavosa dei fiumi”, aggiunge lo storico palermitano. E ci dice anche di più.

A Palermo, infatti, c’erano anche gli storioni: “Se li volete vedere andate al Museo Doderlain in via Archirafi, il Museo della Scienza: ci sono conservati imbalsamati gli storioni pescati nell’Oreto nel Settecento. Ma ci pensate a Palermo gli storioni?”.

“Io le anguille Io le ho viste. C’erano fino agli anni Cinquanta e c’era pure il persico reale: non so quanto ci fosse di buono da mangiare, perché questo pesce persico è pieno di spine, ma veniva catturato. A quanto pare, nella parte più alta c’erano anche gamberi di fiume. Il gambero di fiume è pregiato”, aggiunge ancora Basile.

Anche il fiume Oreto si gonfiava molto per le piogge. Straripava e faceva danni. Il 24 novembre del 1692, ad esempio, le acque dell’Oreto strariparono all’altezza del Ponte delle Teste e le anguille vive arrivarono all’attuale angolo di via Lincoln, fino al bastione di Vega. Tutta Palermo corse a pigliare anguille. Continuò a fare danni fino a quando, nel 1938, se ne corresse il corso: non passò più sotto i piloni del Ponte dell’Ammiraglio, fu deviato ed è quello che vediamo oggi.

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