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Gaetano Basile ci porta alla scoperta della storia e delle storie di “Palermo e Santa Rosalia“. Lo storico e giornalista palermitano, ancora una volta, ci stupisce con tanti racconti interessanti sulla città.

“Palermo e Santa Rosalia” alla maniera di Gaetano Basile

“Pur essendo ateo, assolutamente miscredente, guai a chi mi tocca Santa Rosalia. Più palermitana la sua storia non può essere. Ci hanno messo mano tutti, per creare una persona di cui non sappiamo niente”, esordisce così Gaetano Basile, introducendo durante il Festival RestART uno dei suoi approfondimenti.

Eppure, di Santa Rosalia, abbiamo costruito la biografia. “Diciamo che la storia di Santa Rosalia comincia il 10 febbraio del 1625. Viene chiamato don Pietro Lo Monaco, che era il cappellano della parrocchia dei Santi Ippolito al Capo, per recarsi al capezzale di un moribondo, tale Vincenzo Bonelli, che voleva confessarsi e avere l’estrema unzione”.

Il moribondo affermò di volersi confessare, poiché gli è successo un “fatto straordinario“. Il poveretto, che aveva perso la giovane moglie, era salito sul Monte Pellegrino per suicidarsi, ma qui gli era apparsa una giovane “dalla faccia d’angelo, bellissima, bionda e con gli occhi azzurri”. Questa visione gli aveva detto: “Vai dal Cardinale Doria e digli che le ossa che tiene nella sua camera sono le mie”.

La peste del 1575 e quella del 1624

Ora, a questo punto bisogna fare un passo indietro, e cominciare dalla peste di Palermo del 1575. Quella peste fu curata con successo da Gianfilippo Ingrassia, un vero e proprio luminare dei suoi tempi: creò subito i lazzaretti e intuì come evitare la propagazione del morbo. Ingrassia scrisse anche una lettera al Senato di Palermo, spiegando che, sebbene quella volta l’emergenza fosse rientrata, i medici con cui aveva avuto a che fare non erano molto preparati: “Si prospetta un momento triste per l’avvenire più immediato“.

E così fu perché, nel 1624, le cose non andarono così bene. Della peste se ne parlava già da anni: era scoppiata nel 1622 una pestilenza gravissima in Tunisia. I provvedimenti furono immediati, impedendo l’importazione di paglia, fieno, e avena dalla Tunisia, ad esempio. Sebbene ci fosse questo blocco navale, però, nel 1624 una nave riuscì a sbarcare.

Era una nave “delli irredenti”, cioè di siciliani che erano stati presi prigionieri dai corsari tunisini e poi liberati pagando un riscatto. Il comandante, tale Maometto Calavà, riuscì a corrompere il viceré. La nave sbarcò e la peste si propagò.

I primi casi di peste si ebbero in una traversa di via Alloro. Poi si allargò a macchia d’olio. Per prima cosa, la città di Palermo fece appello ai suoi santi protettori, che erano ben 90. Ebbene sì, Palermo ha 90 santi protettori, che oggi sono diventati 91.

Dopo il Seicento, con l’apertura di via Maqueda e il taglio del Cassaro e la nascita dei Quattro Canti, la città, che era prima divisa in “quintieri”, diventò divisa in quartieri, quattro. Ogni quartiere si chiamò mandamento e abbiamo nominato una protettrice per ogni mandamento: Sant’Agata, Sant’Oliva, Santa Ninfa e Santa Cristina.

Ma ora torniamo a Santa Rosalia. “E scusate, chi è Santa Rosalia?”, chiede Gaetano Basile. “Non sappiamo assolutamente niente. Non c’è un pezzo di carta, un documento, niente. Ci mette mano un sant’uomo, Padre Bartolomeo Lo Faso, ed è il libro più esaltante, curioso, divertente che abbia mai letto”. L’ha scritto nel 1640: “Padre Bartolomeo Lo Faso non è che avesse una grande cultura. Era molto attento a scrivere delle cose, però pigliava cantonate”.

Quel testo riporta che la famiglia di Rosalia era imparentata con i re Normanni. Lei sarebbe nata sotto Ruggero Secondo e morta sotto re Guglielmo il Malo, intorno al 1170. Viveva alla corte del re ed era nelle intenzioni del giovane e nobile Baldovino, sposarla. Rosalia non ricambiava questo desiderio, ma decise di dedicare la vita a Dio, andando a vivere in una grotta della Quisquina.

“Ora c’è un piccolo dettaglio”, spiega subito Basile: “La grotta della Quisquina è una fenditura in una montagna che si è creata a seguito di un terremoto. Quindi con tutta la buona volontà. Santa Rosalia non avrebbe mai potuto entrarci”. Ad ogni modo, Rosalia dalla Quisquina poi si trasferì a Palermo e si fECEa monaca basiliana, vivendo dove vivevano i romiti di quell’epoca: Monte Pellegrino.

Monte Pellegrino era un centro di romitaggio che già era frequentato nel VII secolo dopo Cristo. Come si accedeva? Non c’erano strade. L’unica via per salire sul Monte Pellegrino era quella che parte oggi dalla Favorita e si chiama la Valle del Porco, perché di lì risalivano e scendevano i cinghiali – e lo fanno ancora oggi”.

I romiti vivevano in una comunità mista di uomini e donne, ma ancora il monte era brullo. Proprio sul Monte Pellegrino sono state scoperte, in seguito 136 grotte, di cui alcune con resti umani.

Alcune antichissime tracce documentate di vita su Monte Pellegrino riportano alla guerra punica, quando Asdrubale vi creò un campo cartaginese per tre anni. Dato che, quando si andava in guerra, si portavano appresso le famiglie, quando qualcuno moriva, veniva inumato in una grotta.

Le ossa di Santa Rosalia e il Festino

“Tant’è vero che nella grotta di Santa Rosalia c’è ancora la traccia di un tempio cartaginese. E quindi è normale che lì ci seppellissero i loro morti”, spiega Basile. Santa Rosalia, scrive Bartolomeo Lo Faso, morì di stenti a 39 anni. A questo punto il discorso si fa complesso.

Già nel 1575, di fatto, si sentiva parlare di una certa santa palermitana romita, una monaca basiliana che viveva in una grotta di Monte Pellegrino. Alcuni frati francescani, del convento di Santa Maria di Gesù, si erano recati sul posto per fare degli scavi.

A un certo punto, trovano delle ossa fossilizzate, insieme a delle piccole “perle” di calcite, probabilmente una collana di una donna. E da qui la deduzione: “Era il rosario di Santa Rosalia”.

Furono trovati due teschi: “E come mai Santa Rosalia aveva due teste? Perché fra i resti ci sono due teschi? Uno era quella della santa, mentre l’altro l’aveva trovato. Come a Napoli si usa ancora, allora si affittavano i teschi, per tenerli in mano mentre si pronunciavano le preghiere. Quindi qualcuno “napoletanamente” interpretò così la seconda testa. E, di fatto, Rosalia è rappresentata con un cranio in mano”, sottolinea Basile.

Torniamo adesso al momento della peste del 1625. Dopo la morte del viceré dell’epoca, venne nominato viceré facente funzione il Cardinale genovese Giannettino Doria (sì, quello citato all’inizio di questo racconto).

Quando Giannettino Doria si trovò davanti quelle ossa, non nascose qualche scetticismo in merito alla loro provenienza. “Ecco perché Don Pietro Lo Monaco, dando l’estrema unzione a Vincenzo Bonelli, capì che lì c’era una chiave importantissima”. La visione apparsa a Pietro Lo Monaco aveva detto di spiegare a Doria che le ossa erano sue.

Alla fine il Cardinale Doria si arrese: erano le ossa di Santa Rosalia. La notizia si diffuse rapidamente e arrivò al Capo, dove abitava Vincenzo Bonelli. “Appena arriva la notizia, ci fu una festa enorme, talmente grande che per tre giorni si festeggiò. “E fu una festa talmente grande che si chiamò Festino. Fu il primo Festino e fu, anzitutto, una festa per gli abitanti del Capo”.

Però, precisa Basile, la peste non cessò ma, anzi, “Durò, fino al 1646. Certo, non fu pericolosa come prima, ma la peste scomparve dopo vent’anni”. In ogni caso, “Con questo ha inizio quella serie ininterrotta di feste o di festeggiamenti che ogni anno si ripetono dal 1624 in onore di questa santa. Il Festino non è assolutamente una festa religiosa, manco per niente. È un ex voto popolare per ringraziare Santa Rosalia per averci salvato dalla pestilenza”, conclude Gaetano Basile.

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