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Palermo tutto porto, anzi, “tutti porti“. Già, perché il capoluogo siciliano ha con il suo mare e, soprattutto, i suoi tanti porti, un rapporto profondo e antico, che non tutti conoscono. Scopriamo insieme a Gaetano Basile pagine di storia e tante curiosità su “Palermo e il suo mare“.

Gaetano Basile racconta Palermo e il suo mare

In occasione del Festival RestART, Basile è stato protagonista di un interessante serie di incontri all’Archivio Storico di Palermo, con diversi approfondimenti sul capoluogo. Un racconto della storia e dell’evoluzione della città, che passa attraverso fiumi, monti e, anzitutto, mare.

In origine Palermo – da Panormus “tutto porto” – era un porto immenso e, ci rivela Basile, ciò che vediamo oggi ne è solo una piccola parte. “Panormus, tutto porto, un porto immenso. Che poi, a vederlo oggi, il porto immenso non c’è: quale era?”, aggiunge, come introduzione al suo interessantissimo excursus.

Il racconto parte proprio da un elenco dei porti della città, primo fra tutti quello, molto grande, che andava dall’odierna Chiesa della Gancia alla punta dove c’è la chiesa di Santa Maria della Catena, con una spalliera frangiflutti, un unico pezzo di roccia che lo proteggeva. Questo porto, dalla Chiesa della Gancia, saliva, saliva e saliva fino all’odierna Focacceria San Francesco.

“Avete presente la via Paternostro, dove c’è la Focacceria?”, chiede Basile. “Era la linea del mare, lì c’era la riva del porto. Questo porto entrava nella città e il suo punto più caratteristico era quello che aveva un promontorio, che è la Chiesa di Sant’Antonio Abate di via Roma. Lì c’era la punta estrema della città”. La Vucciria era un posto dove uno “poteva calare la lenza”.

Il porto arrivava fino oltre all’Ucciardone ed era importante, anzitutto perché era protetto dai venti che venivano da Sud. Ma non era certo l’unico, nel golfo ce n’erano altri, che abbiamo quasi dimenticato.

L’altro porto importante si trovava esattamente a Sant’Erasmo: non vi si caricava e scaricava merce, ma era un “escarion” in greco, cioè vi si poteva fare cambusa e si potevano caricare e scaricare i cibi. Ecco perché da “escarion” nasce il nostro “scaro“.

Sono tanti i porti da elencare, come quello di Romagnolo, che era tutto roccioso con delle piccole calette. I pescatori pescavano con il cianciolo e buona parte di loro, infatti, si chiama Cianciolo: quello che pescavano, vendevano. Più avanti c’era un altro porto, che oggi non esiste più: il porto dell’antico rione della Kalsa. Zona di pescatori, che pescavano aragoste e granchi con le nasse (c’è ancora “via dei Nassaioli“). I mariti pescatori, le mogli ricamatrici, tutti di origine araba.

Più avanti, dove c’è oggi il mercato del pesce, c’era il rione San Pietro, con il suo piccolo porto, che però importava poco, poiché nel rione abitavano “riattieri” e pescivendoli. I “riattieri”, in siciliano, non equivalgono ai rigattieri: il “riattiere” passava a ogni capobarca un fisso giornaliero, a condizione che tutto il pescato finisse a lui. Lui si rivaleva quando la pesca era abbondante. I riattieri avevano alle loro dipendenze dei pescivendoli.

I pescivendoli del Rione San Pietro, da secoli, hanno solo due cognomi: Sampino e Mancino. I nomi propri sono importanti: siccome San Pietro era un pescatore, il primo maschio nato si chiamava Pietro, il secondo con il nome del fratello di San Pietro, cioè Andrea.

Andiamo più avanti. L’altro porto più vicino era alla fine di via Mariano Stabile, poi c’era un’altra borgata di gente di mare, di pescatori: un borgo nato fuori le mura della città, davanti l’Ucciardone. Un porto così piccolo, da chiamarsi “Porto del Pidocchio“.

Ancora vi si fa riferimento nel linguaggio popolare e, pensate un po’: uno dei pescatori era il padre di Pitrè. Lo stesso Pitrè, medico, fu medico a bordo della nave che portò Garibaldi a Caprera e conosceva bene il mestiere di marinaio: suo padre era pescatore, la madre ricamatrice. Il Porto del Pidocchio è scomparso quando si fece il nuovo, grande porto di Palermo, con i cantieri navali.

Man mano che passavano i secoli, il grande porto si restringeva sempre di più: si andava insabbiando per l’apporto di Papireto e Kemonia, al punto che interrarono la Vucciria, piazza Marina, la zona che va dalla Focacceria San Francesco a scendere. Così, del porto, rimase solo La Cala (oltre a quelli piccoli dei pescatori). Già in epoca araba, La Cala era di un’importanza incredibile: lì nacque per la prima volta in Europa un posto dove potere riparare le navi.

Le tonnare di Palermo

Ogni mese di maggio c’era il passaggio dei tonni. La prima tonnara, entrando nel golfo di Palermo, era quella dei Rotoli-Vergine Maria, la seconda era quella di San Giorgio, che poi diventò la Tonnara Florio, poi andando più avanti c’era la Tonnara di Capicello (detta “a Tunnarazza), Sant’Erasmo. Poi c’era la tonnara di Acqua dei Corsari.

Sant’Erasmo era “escarion”, ma diventò anche un marfaraggio di una tonnara. Tonnara non è la costruzione in muratura (quello è marfaraggio, camparìa, bàgghiu, masseria…). “Quando arrivò Garibaldi, si decise che dovevamo parlare in italiano. Qualcuno vide gli edifici e disse ‘Che bella, questa è una tonnara’, così tutti iniziarono a scambiare per tonnara, il marfaraggio“, spiega lo storico. E ora tutti scambiano per tonnara il marfaraggio, dunque.

Il mare e i suoi pesci

Ma cosa si pescava nella Palermo antica?  Il mare, a Palermo, era pulito, almeno fino a una considerevole parte del Novecento, fino al 1940, ci ricorda Basile. Quel mare pulito era attraversato da due correnti, d’acqua fredda e d’acqua calda. Si pescava il ben di Dio. L’acqua fredda che arrivava a gennaio era l’ideale per prendere il pesce azzurro.

A proposito di pesce azzurro: “Ma voi l’avete mai visto, un pesce azzurro? All’acquario, forse!“, chiede Basile. Il pesce azzurro, spiega, è un pescetto molto bello, lungo 4 o cinque centimetri, che vive nella barriera corallina ed è velenosissimo. “Ma allora come mai decantiamo il pesce azzurro?“.

Quando a Palermo arrivarono i Saraceni, utilizzarono il termine arabo usato per la “lazurite” cioè il lapislazzulo, perché questi pesci hanno il colore del lapislazzulo. “Quando abbiamo sentito quello che dicevano, abbiamo coniato il termine di pesce azzurro“.

Gennaio e febbraio era tempo di sarde e sgombri. Questo argomento apre la strada a un altro importante approfondimento. Attenzione a parlare di sgombro: lo sgombro, infatti, deve andare dalla punta del dito medio al polso, è un pesce piccolo. E come mai oggi abbiamo sgombri enormi? Quelli non sono sgombri: si chiamano “occhi grossi” e hanno una carne e un gusto diverso. Marzo, invece, era tempo di “vuope“, cioè le boghe, mentre ad aprile triglie.

Le triglie buone si pigliavano al largo del golfo, erano quelle di scoglio. Poi, invece, dalle parti sabbiose, tipo Balestrate, Isola delle Femmine, c’era la sabbia, con triglie meno pregiate rispetto a quelle di scoglio.

I grandi del mare: il comandante Vincenzo Di Bartolo

Il mare porta soldi e riesce a fare miracoli, ci ricorda Gaetano Basile. “Avete mai pensato come sia nata la ricchezza dei Florio? Come fa una famiglia che alla fine del Settecento scappa dalla Calabria, perché ha perduto tutto nel terremoto?”, chiede lo storico. “Come fa una famiglia ad arricchirsi vendendo prodotti coloniali?”.

Ebbene, rivela Basile, i Florio misero gli occhi sul capitano Vincenzo Di Bartolo di Ustica, che partì nel 1838 e 1839 con un brigantino che si chiamava Elisa. All’epoca il comandante di un mercantile era un commerciante, carico di olio, mandorle, vino, fave, che vendeva a Boston, guadagnando un sacco di soldi.

Caricava a Boston altra merce e l’andava a vendere in Malesia, dove caricava generi coloniali. Le stive erano talmente piene, che le esalazioni uccidevano chiunque, l’equipaggio dormiva sul ponte.

L’Elisa era di proprietà dell’industriale Beniamino Ingham e, nel 1938-1939, fu il mezzo di un viaggio ricco di peripezie. Quelle peripezie valsero a Di Bartolo il soprannome di “Cristoforo Colombo palermitano“. Di Bartolo, infatti, fu il primo a raggiungere Sumatra al comando di un veliero battente la bandiera del Regno delle Due Sicilie.

La spedizione di Vincenzo Di Bartolo era stata finanziata da Ingham, il quale al suo rientro gli diede una buona notizia. Il re di Borbone decise di nominare Vincenzo Di Bartolo Alfiere di Prima classe che, nella marina mercantile, corrisponde al grado di Ammiraglio.

Florio e Ingham esaminano la cosa e scoprono che una nave comandata da un Ammiraglio o Alfiere di prima classe, è esente da dazi e non può neppure essere perquisita”. “Sapete quanto era il dazio sui coloniali? Per le spezie, del 100% del valore, quindi avrebbero avuto in mano della merce che costava il 100% in meno”, ha dunque concluso lo storico.

“Il comandante Vincenzo Di Bartolo fu un grande marinaio: è sepolto a Ustica“, afferma Basile, rendendo omaggio alla memoria di questo storico comandante. “Io sono un amante del mare, il mio mare mi piace da morire“, conclude Gaetano Basile.

Credit immagine cartolina: Biblioteca comunale Palermo.

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