Il sottotitolo non tragga nessuno in inganno. Non voglio rifare la tesi di laurea di Luigi Pirandello né avere alcuna pretesa scientifica. Tant’è vero che si tratta di un viaggetto, una gitarella, una specie di scampagnata. Visiteremo i luoghi linguistici agrigentini, cioè tanti (non tutti, certo) di quei modi di dire, verbi, frasi, singole parole che a Girgenti vengono pronunziate con leggerezza, senza pensarci due volte, ormai legittimate dal tempo e dall’uso ma che magari all’orecchio di un non agrigentino possono sembrare strane, quando non sono decisamente sbagliate. (Le espressioni incriminate sono in grassetto.)
Comincerei da un verbo, il verbo dei verbi, il termine che ci permetterà di riconoscerci come agrigentini quando un giorno saremo tutti in Paradiso: è il verbo
sapercela! L’agrigentino non è capace di fare qualcosa, egli più semplicemente ce la sa. “Ce la sai, bellomè? – Prima ce la sapevo. – Ora non ce la so più. – Se ce la sapessi,
che fa, non te lo farei?”
E sempre rimanendo in ambito verbale è nota la propensione che abbiamo nel considerare transitivi alcuni verbi intransitivi. E quindi può capitare di sentire qualcuno che chieda alla propria madre: “
Scendimi le chiavi che devo
uscire la macchina dal garage. Devo prendere delle cose, che le devo
salire a casa” (non prima di aver
entrato la macchina nuovamente in garage). Una volta una mia amica che era appena tornata da un viaggio,
scese le valigie dall’auto (tante, vi assicuro), e guardandomi fa: ”
Sàlimele!”. Tutti noi usiamo questi verbi in questo modo. Tempo fa un cronista siciliano del TG5 commentando una rapina disse che il malvivente aveva
uscito la pistola; l’episodio fu riportato dopo qualche giorno da Striscia la Notizia nella categoria “strafalcioni dei giornalisti”.
C’è poi il caso di quei participi usati un po’ così: “Vuoi
comprate le patatine?” chiede il papà premuroso al figlioletto; “Hai tutti i pantaloni
scesi” gli fa eco la mamma; “Si deve fare una
piovuta!”, chi di noi non l’ha mai detto guardando un cielo di piombo (del resto se c’è la grandinata e la nevicata, anche la piovuta reclama il suo bel posticino tra le precipitazioni atmosferiche, no?).
Poi c’è una serie di situazioni linguistiche che riguardano l’andare al mare, pardon, l’andare
amare. Intanto a mare
si ci va (e non “ci si va”) in macchina e si porta la
tovaglia, cioè il telo (questa cosa mi fa secco!). Se si vuol fare una passeggiata si va
spiaggia spiaggia e se magari si è in comitiva si possono anche
tirare le foto. E poi c’è sempre qualcuno che a un certo punto chiede “Com’è l’acqua?”, ottenendo come risposta, invariabilmente: “
Bella!”.
Ed è proprio al mare che l’estate scorsa ho assistito al seguente scambio di battute. Accanto alla mia
tovaglia (eh eh!) c’era una famigliola, simpatica ma non troppo, con dei bambini che frignando chiedevano il gelato. “Potete
stare freschi”, abbozzò lì per lì la mamma, “mangiatevi invece i
mottini (le merendine) che vi ho portato”. Ma le proteste crescevano di intensità, i bambini
facevano l’inferno, per cui dopo un timido temporeggiamento (“Ho solo
soldi sani”), la poveretta, alla quale nel frattempo era
venuta la pena, capitolò. “Mi state facendo
uscire pazza”, disse avviandosi mestamente verso il chiosco dei gelati. Ma al ritorno fu lei a prendere in mano la situazione: accusò i figli di averle fatto fare
mala figura con le persone, e che quindi le era
caduta la faccia a terra. “Da domani in poi se dovete fare così ci
muoviamo a casa” accusava (eh sì, perché a Girgenti, il verbo muoversi esprime anche immobilità). “Con voi
non ci posso combatterepiù”, proclamò ultimativa, “mi state facendo
cadere malata”. E per finire: “Guardate, avete
tuttele mani sporche” (vi assicuro, avevano solo due mani ciascuno, come tutti) “e ora pulitevi il
musoche ce l’avete
marrò”. Era, infatti, un gelato al
cioccolatto.
Laddove dappertutto il
facchino è il portabagagli delle stazioni, ad Agrigento è la persona maleducata. Tempo fa andai a Roma in pullman. All’arrivo, al piazzale della stazione Tiburtina, ci fu la solita ressa per prendere i bagagli. Un passeggero, lamentandosene con l’autista si sentì rispondere: “Caro signore, io sono un autista, non sono un facchino”. E il signore si profuse in scuse assicurandogli che non voleva assolutamente dire che era un
facchino. Oppure un mio caro amico, tempo fa, dovendo spiegare a un’amica del Nord il significato della parola
vastaso (stesso significato), la tradusse con…
facchino.
Un altro amico, trovandosi al ristorante a Rimini chiese tre
scioppetti di birra, gettando nel panico la cameriera. Lo scioppetto è la bottiglia piccola, quella da 33 cl. La donna, temporeggiò un po’ nelle cucine, dopodiché tornò dicendo che non li aveva. Si sentì rispondere: “Vabbé, allora mi porti uno
scioppone”.
Da
ittari vuci (gridare, urlare), l’agrigentino tira fuori
buttare voci.
Una sera d’estate di qualche anno fa andammo a vedere “Questa sera si recita a soggetto” una bella commedia di Luigi Pirandello – nostro concittadino –, in cui alcuni attori, confusi tra gli spettatori interagiscono con i colleghi sul palcoscenico e ovviamente sono costretti ad alzare la voce. Un nostro amico si trovò seduto di fianco ad un’attrice esterna che pertanto passò tutto il primo atto a urlare. All’inizio del secondo atto, alla ripresa dei posti, ‘sto mio amico, che, vi giuro, non aveva capito niente della situazione e pensava che l’attrice fosse semplicemente una pazza scatenata, la guarda e le fa: “Ma lei non è quella che poco fa
buttava voci?” “…” (Pausa di sconcerto dell’attrice) “E ne deve
buttare ancora?”
Alcune espressioni orbitano nel mondo dei rapporti sociali e del sentimento: “Mi
fai simpatia”; “mi sono
fatto fidanzato, sai, con quella che mi
faceva sangue” (lì per lì penseresti a una bistecca); “sei zita o
lasciata?”, si informa, premurosa (e forse speranzosa), l’amica del cuore; “ci siamo lasciati ma mi sta
uscendo il senso”, risponde, la povera delusa. Quando non si ha alcuna intenzione di andare a trovare un amico, normalmente gli si dice: “Uno di questi giorni
avvicino!”. Per indicare la frequenza assidua con cui si fa qualcosa, si dice che si fa
ogni due e tre. “Mio nipote si è fatto
tanto” dice la zia orgogliosa segnando nell’aria con una mano la probabile altezza del bimbo, “e poi, è un bambino intelligentissimo,
non perché è mio nipote!” (e perché, se no?). Si esprime soddisfazione con: “
Mi è venuto il cuore”, che cardiologicamente parlando deve essere uno sproposito; e poi “Non fare lo
sperto”, ovvero il furbastro. “
Vedi che ti dico?” (senti, casomai!); “Quello che mi dici mi
stranizza”, e la meraviglia si dipinge sul suo volto attonito. “
Ti cucino?”, chiede la moglie al marito mentre qualcuno può pensare che ‘sta donna prenda il coniuge e lo ficchi in pentola. “Ho
calato la pasta” (da dove?), “
Mi sono mangiato il panino e
mi sono bevuto la Coca-Cola” (meno male che ha aggiunto il panino e la Coca-Cola!); “Ho fatto
tutte cose”.
Straordinari sono anche “
avere di bisogno”, “
salirsene” e ”
scendersene”, “l’utile e il
divertevole”, “prendere una
scaffa” (una buca per strada), “
portare la macchina” (nel senso di guidarla), “
camminare in auto, (non si camminava solo a piedi?), “
per sì e per no”, “
niente ci fa!”, “la vuoi una
ciunga? (chewing-gum) – dammene
mettà”. I giorni della settimana sono, inspiegabilmente,
luneddì,
marteddì, etc… Personalmente amo molto anche i raddoppiamenti: “
Giusto giusto!”, “
a quando a quando”, “
solo solo”, “
piedi piedi”, “vedersela
pietre pietre”, “andarsene
muro muro”, “sono arrivato
ora ora”, “l’ho appena comprata, è
nuova nuova”, “il cinema è
pieno pieno”; e le esclamazioni:
‘Nzumma!,
Cèèè!,
Mischino!,
Camurrìa!,
Mì!,
Moru!,
Gnà!,
Gnà chi!,
Gnà comu! e
Gnà dà!, il conclusivo
Va’!, l’arcaico
Scasciu!, per finire con
Maria!, citato anche da Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”.
Naturalmente, questo scritto non ha alcuno scopo canzonatorio nei confronti di nessuno: è stato soltanto il volersi soffermare (per sorriderne un po’) su un aspetto della vita della nostra città che è quello del parlare. In fondo,
ha che parliamo così da una vita,
cose giuste!