Il giardino d’Ippocrate un racconto di Danilo Cannizzaro

     “La religione va bene negli ospedali.

Dio gode di una certa popolarità

in posti del genere.

    (Charles Bukowski)

Un dito in gola e uno

nel retto fanno

un buon diagnostico.

    (William Osler)

     “Dico spesso che

un grande dottore uccide

più gente che un grande generale.

    (Leibnitz)

Il giardino d’Ippocrate

 

La sera, rimbecillita dalla calura, s’era ormai stravaccata sul terreno dell’anzianotta contea di M***** – dove la cenere dei morti istruiva la polvere delle strade sul da farsi – e lasciava che le ombre, prive di controllo, si adagiassero al suolo come onde stracche.

Il tramonto, dal canto suo (tanto per non star con le mani in mano), aveva insanguinato il litorale non distante, in ultimo spruzzando una gala arancione, al confine tra la fascia di cielo, incendiata di violetti e di strisciate verdi e blu, e quella di un mare di petrolio, profumato di iodio e vaghi zolfi.

Ai lati dello sguardo di un eventuale osservatore si allargavano e si sdilinquivano lampi di colori già cotti, sfumati dalla mano d’un artista esagitato.

Tutto quel ben di Dio di stupore visivo si portava dietro… come una musica ossessiva e ipnotica, che si ripeteva all’infinito, ma non era identica a quella di un minuto prima.

Dopoché, senza preavviso, quell’arte di suoni si placò per lasciar posto a un sassofono attempato, con la voce logora un poco, capace ancor di fiati e sospiri avvincenti.

Da qui in poi, la luna se la pensò d’inghiottire pigramente qualche pipistrello, mentre le stelle cadevano come cicche di sigarette, gettate da spiritelli strafottenti, dalla terrazza celeste.

 

(Tuttavia, a dispetto di tutto ciò, il docile lettore sta per esser condotto presso il portone dell’Ospedale Civico di C*****. Entriamovi, quindi, senz’altri indugi, se vogliamo conoscere il fattaccio: è già ora).

 

 

Finché lo possiamo

di pergole il succo

allegri beviamo:

godiamo lo scrocco

dacché insudiciamo

con fiero cipiglio

il mondo balordo.

Liquore vermiglio

succhiamo a baluardo

(senz’altro consiglio)

di nostra incoscienza

ch’è bella e ch’è santa

nel darci demenza

bastante ed alquanta

ad ogni occorrenza.

Noi siamo la feccia

dell’orbe terraqueo,

noi siam la corteccia,

l’osceno corteo

che lieto impiastriccia

il cosmo correo:

 

 

se mai ne fossero stati capaci, così avrebbero cantato due induriti beoni, che bivaccavano in una saletta antistante una delle corsie infami – in cui v’erano sconciamente ammassati (novello girone infernale) lungo e medio degenti assortiti in tutte le taglie e per ogni pervertito gusto – ma, invece, erano due qualunque farabutti, abbigliati da infermieri.

E veramente, in spregio a qualsiasi decenza e ragionevolezza, tali erano.

Il mondo va così.

Cionondimeno: trincarono della grossa per tutta la notte, certi che guaderebbero – more solito – il turno loro, impuniti trascuratori di gemiti e lamentazioni dei sofferenti.

Sul far del giorno, una specie di pernacchia li importunò, malamente scrollandoli dalla trance etilica: era la soneria che li reclamava in servizio.

Poco dopo, maledicendo Dio e quanti supplicassero soccorso, assistenza, medicazione, cura o scocciature affini al lor passaggio – a certuni non lesinando spintoni villani, triviali versacci a talaltri, sputi e farda catarrosa ad altri ancora – si diressero verso la sala operatoria, seco trascinando un malato, addormentato, su una barella pericolante.

Questa usarono come ariete per forzare i battenti martoriati, quindi ne scaricarono l’infermo sul letto chirurgico.

L’anestesista, col medesimo, garbo applicò la maschera ed aprì il rubinetto dell’etere, che col suo fischio di serpente lusingatore regalò al paziente il sorriso che premia in sogno i miracolati, gli alienati estatici, gli inebriati (in generale) e gl’inebetiti d’oppio (in particolare).

Poi – purtroppo – entrò il famoso dottor *, chirurgo.

 

***

(Vieni lettore, vieni, trattieni lo stomaco, ché ora ti si offre – agra – distrazione, poiché…)

 

Non distante, in un mondo parallelo (pochi metri in linea d’aria), in una stanzetta sorvegliata dall’esterno da un triste, malriuscito Redentore in legno sbreccato, la giovanissima Giannina, viso cupo e fanciullesco (di quelle incaricate di soffrire ogni volta che si può), dava alla luce un cosino fracidiccio.

Questo esserino, sotto sguardi avviliti e increduli, tempo dodici ore, prese ad incartapecorirsi al punto che, raggiunta sembianza di un mostriciattolo fossilizzato, si risolse – per il suo stesso bene – di crepare in fretta, senza troppi scrupoli.

Schiattò, in fin dei conti, al modo d’una castagnola inesplosa, che sbuffi un esiguo fumacchietto dalle polveri mollicce.

A fianco del suo lettino, due baciapile ipocrite, per maggior gloria di Nostra Signora Martire dello Scoramento e del Flagello Intrinseco, sgranavano rosarî, rugumando come conigli che mangiano l’erbetta.

Per una madre quasi bambina è un brutto inizio.

Pessimo inizio.

Ma per una devastante malattia di nervi, oh, bisogna ammettere, è un inizio eccellente.

Anzi, sebbene con le donne non si può star mai sicuri di nulla, fu un inizio che ebbe in sé qualcosa di miracoloso. Tant’è che in seguito, bellamente trascurando illustri precedenti, “Giovanna la pazza” fu il nome con cui il paese intero salutò la poveretta, cui vennero attribuite facoltà medianiche esercitate nelle discipline della lettura delle carte e della proiezione del malocchio.

 

***

 

– «Bisturi!» – comandò il famoso dottor * (chirurgo di questo paio di stivali [1]), palpeggiando il ventre sferico del poveretto, disattivato sotto le sue granfie – «Bisturi! Forza! Movimento! Ché già ’ni sta scurànnu!»[2]

Un’infermiera grassoccia e zoppa, allora, depose malvolentieri il fotoromanzo con cui stava provvisoriamente sedando la sua inestinguibile brama di baci stampati e trottignò, armata del prescritto stromento (che le era appena servito per la cura delle unghie), verso l’infelice spento sul tavolo, non prima – sia detto a suo merito – d’averne sommariamente nettato la punta sul proprio quarto posteriore.

Presto l’epa abbondante fu scoperchiata del poco di tessuto che la fasciava, e il famoso dottor * , essendosi fatto largo di tra il folto pelame con manovre ampie d’avambraccio, sicuro incise e spalancò il marsupio umano.

– «Eccheschìfo!» – poi sclamò – «Ma guardate, guardate questo come se ne va in giro! Ma io dico! Non pretendo certo che si rispettino le proporzioni anatomiche al millesimo, ma costui esagera! Quando fanno così, io… io… manco li opererei, guarda un po’! mi fanno perdere tempo, mi fanno perdere! Eh! Non è che non ho niente da fare, io!»

– «Raggiòne ha, professòre!» – gli fecero in coro i balordi intorno – «la ggènte sono pazzi!»

Quindi un solista:

– «Lei perché è troppo bravo, professòre… io, per me, lo lascerei a panza all’aria, così si impara l’educazione, ’stu strun…»

– «No, no, Ingallinera,» – l’interruppe il famoso dottor * – «la scienza (di cui io sono umile ministro), ci comanda di soccorrere, qua, questo paziente! Che egli faccia schifo (anatomicamente ed esteticamente), per noi non deve fare la minima differenza! Noi siamo missionari! Siamo stati chiamati! Dico bene? Ingallinera! Forse che io non sono stato chiamato?»

– «Professòre, io qua ero… niente ho sentito, veramente…»

– «Che cosa?»

– «Che l’hanno chiamato, Professòre…» – si scusò il diseredato.

– «Quando mi hanno chiamato? Possibile che devo sapere le cose sempre all’ultimo momento!?! Ingallinera! Io ti esautoro!»

– «No Professòre, l’ha detto lei che l’hanno chiamato…»

– «Ossignòre benedetto! La chiamata, la chiamata, Ingallinè, la chiamata è… la missione, no? La mia, missione. Tu devi fare conto che io, anche se sto qua con voi, io sono, nel mio esercizio, un missionario! Io sono un sacerdote!»

– «Il professòre parla vangelo!» – ruttò la zoppa, che aveva approfittato del pistolotto per vedere se, nella pagina seguente del suo fumetto, le lingue lubriche avessero già operato, decretando il trionfo definitivo dell’amore sull’avversità varie.

– «Grazie Favaloro» – la ricompensò il luminare, afferrando un tratto d’intestino a portata di mano e sollevandolo – «ma non dobbiamo esagerare! Vero che sono, certe volte, anche meglio d un prete,» – (ad ogni strattone alle sue personali frattaglie, intanto, tormentato nell’equilibrio coprostatico, benché silenziato dall’anestesia, lo sventurato gemeva pietosamente) – «ma ogni tanto pure io perdo la pazienza! Guardate a questo! Guardate! E che si fa così? C’ha più vermi lui di un negozio di esca viva! Eh! Quand’è così mi schifo pure a vederli!»

E in effetti, mostrava la più viva ripugnanza alla vista del suo orologio d’oro tutto imbrattato dall’entragne violate e lasciate, per la verità, un po’ in disordine.

***

 

Il famoso dottor * (possa egli soffrire tormenti atroci chiamando a soccorso con i nomi più amorevoli gl’indifferenti parenti suoi negli attimi esiziali) non era certo l’unico primario affaccendato, quella mattina.

Un altro prestigioso terapeuta, governato sicuramente dallo zelo più rimarchevole verso l’esplorazione scientifica, in una stanzetta del reparto psichiatrico al piano superiore, indagava i segreti della signorina Vincenzina *, affetta da (oggi si direbbe) psicosi maniaco-depressiva (allora si diceva, più empiricamente: “scattiàta”).

La poverina – della bellezza malaticcia e gracile degli indifesi perseguitati –, non riuscendo a comprender bene qual tipo di incursiva terapia le stesse praticando quella bestia sudata, fissava sgomenta il soffitto con occhi di vetro impassibili, dietro i quali pensava fortemente – quasi a dolersi le meningi affaticate – ai campi odorosi intorno a casa sua, dove ancor qualche giorno prima sgambettava, felice insino all’isteria.

Pensava alla mamma che le accarezzava malinconicamente la testolina graziosa.

Pensava a Morettina (la sua mucca preferita, quella con lo sguardo più sbigottito che si possa ritrovare in un bovino).

Pensava ad un giovanotto gentile che, una volta, le aveva offerto un fiore: «com’era carino!», e si figurava nella mente che quel ragazzo la amasse tanto, e la ricoprisse di baci appassionati.

Sì, si trovava proprio con lui! Nessun altro. E facevano – cosa meravigliosa – all’amore!

Concepiva con la fantasia, dunque, che nel momento presente ella stava in dolcissima compagnia con quel bel ragazzo, che le diceva parole di miele.

Ma, fuor della sua comprensione, nella sordida realtà di quella stanza, non era il ragazzo a depredarla, bensì il maturo e prestigioso terapeuta.

Nel suo intimo, quel giorno, Vincenzina, faceva all’amore.

All’esterno, Vincenzina “faceva all’amore” nello stesso modo con cui, certe volte, quando la testa gli girava forte, si mordeva le unghie, distruggendole.

***

– «Ingallinera!» – disse il famoso dottor *, fattosi d’un tratto pensieroso – «Che cosa dobbiamo togliere a questo signore?»

– «Professòre, non me lo ricordo…» – piagnucolò lo sgherro, che temeva gli accessi d’irascibilità del maestro – «…forse che magari lo sa Porrovecchio! Ieri c’era lui di servizio…» – sperò.

– «Oh, camurrìa buttàna![3] Forza! Chiamatemi a Porrovecchio! Alè! Alè! Movimento! Forza gioventù, trottare!»

(Tal altro scherano, Porrovecchio Giuseppe, tuttavia – irrintracciabile – anche volendo, non lo sapeva, e non poteva esserne meno interessato, dato che in quel momento, perdeva soldi con i suoi compari di scommesse sui combattimenti clandestini di cani).

– «Professòre, non si trova! Forse che è a casa di sua zia Natalina ’a lavannèra [4]: là non ce n’è telefono…»

– «Ma sempre devo fare tutto da solo! Favaloro, forza! Fammi il numero di casa, vediamo se mia moglie si ricorda qualche cosa! Forza! Làssili fùttiri ’di minchiàti di giurnalètta![5]»

La sciancata sorteggiò, con la mano buona, i numeri adatti sul disco selettore:

– «Signora, bongiònno, scusasse tanto, ma oggi ’u prufessùri è ’ncazzatu: vò sapìri chi ’c’iama scippàri a ’stu strunzu ka c’è kà…[6]»

– «A me, a me, movimento!» – le strappò la cornetta, quel sapiente – «Vanessa, amore della casa, che per caso ti ricordi cosa dovevo asportare al paziente qua oggi?»

– «E che mi conti a me? Che sai, che m’immischio io negli affari che non mi riguardano? Ne ho tante cose da fare, io… aspetta, aspetta che cambio mano se no lo smalto si rovina e poi me lo devo mettere un’altra volta. Senti che fài, invece: quando torni, non ti scordare di passare da tuo cognato: mi ha promesso un caciocavallo. Non te lo scordare, hai capito? Pàssici, ché poi quello ne vuole una scusa e non me lo manda mai! Mi raccomando. Ora mi ddevi scusare gioia: ti devo lasciare, ché c’ho assai che fare

Infatti, appena chiusa la stringata conversazione, riaprì subito le cosce, allargandole a favore del dottor *, che soffiava come un mantice, infastidito non poco per l’interruzione, giacché parecchio gli seccava rinunziare a parte del tempo a sua disposizione, essendo già denudato, nella stanza accanto, anche il dottor *, pronto a coglier quel che restava della virtù – giornaliera – della signora.

 

***

 

(Ora vieni, lettore, ché abbiamo da svolgere un pietoso ufficio. Questione d’un minuto: a qualche metro di distanza, solo un paio di porte, si va a far visita ad un brav’uomo. Gli sarà di conforto…).

 

Pipitone Paolino, panettiere rifinito, e pasticciere eccellente altrettanto – cosa che non può essere in contrasto, del resto, con preferenze sessuali personalizzate –, un cristaccione d’uomo di chilogrammi centotrentasette (senza la tara), giaceva su una branda, torturato dai dolori che gl’eran procurati dal bacino fratturato.

Attentamente curava di non farsi scoprire, dai parenti che visitavano gli altri malati nella sua stanza – nessuno dei paesani andava a trovarlo, ritenendo stupidamente di proteggersi dalle chiacchiere… –, ma quando poteva, di nascosto piangeva.

Piangeva di cuore.

Per le fitte, certamente, ma anche, e soprattutto, per un altro motivo.

(Ebbene, isoliamolo, questo motivo: è l’ultima occasione utile. Poi, non si potrà più).

 

 

Paolino col bacino

fratturato, si vorrebbe

magro, fine, mingherlino,

piccolino piccolino

e il fardello lascerebbe

solo agli incubi cattivi.

Come un piccolo ragnetto

che la brezza poi prelevi

e per l’aria lo sollevi;

quasi un esile rametto:

trascinandolo nei cieli.

Liberato nell’azzurro

tra le piume e gli asfodeli

ed i fiori senza steli:

solo il peso d’un susurro.

Senza più un solo osso,

ma neanche un ossicino!

Te l’immagini che spasso,

che delizia, che gran lusso,

volteggiar come uccellino?

Paolino Pipitone

non ha più alcun bisogno:

con i venti, a meridione

s’allontana in ascensione

e non dice «Mi vergogno…»

nella vita replicata

con un corpo senza peso

su per l’aria depurata,

l’atmosfera trasvolata

dell’empireo più esteso.

Pipitone Paolino

se ne viaggia via lontano:

è scappato da un buchino

ormai gioca a nascondino.

Non è più un ergastolano

nella gabbia dei reietti.

Giace morto nel suo letto,

non subisce più dispetti

degli stupidi e dei gretti:

ora, è solo un angioletto.

 

***

 

– «Ha saputo qualche cosa, Professòre

– «Zero Carbonella![7] Figurati se mia moglie sa mai niente, quando le chiedo una cosa! Quella è buona a fare una cosa sola!»

Temettero tutti, realmente conoscendo (a differenza del marito) gli svaghi della signora, che l’operazione stesse per andare a farsi benedire: nessuno osò pertanto proferir verbo, né tantomeno chiedergli a cosa alludesse. Ma ormai il famoso dottor * era già in viaggio, destinazione filippica:

– «Mi fa diventare pazzo solo se ci penso!»

(Apprensione generale)

– «Lo sapete che fa (pare che me lo fa apposta!)?»

Il mutismo e l’omertà regnavano sovrani.

– «Nessuno se lo immagina?»

La saggia storpia cercò di riparare:

– «E ’bònu, bònu, prufessùri… nènti ci fa… Lo sa com’è sò mugghièri: ci brucia. Ci vùgghi ’u pignatièddu quannu sènte ciàuru ’i citròla![8]»

– «Ma che dici, Favaloro! Certe volte non lo capisco neanche io il tuo vernacolo fiorito! Mia moglie lo spreme dal centro!»

(Tutti, a cappella): Ma no, professòre; la gente conta minchiate; parlano per invidia (quant’è brutta l’invidia!); ma quale…; io manco li sentirei, quelli che dicono cose storte; ma figuriamoci; a lei sua moglie ci vuole bene; si stàsse tranquillo; ma tu guarda, quello che si escono dalla bocca; se ogni cane che passa uno ci tira ’na pètra…; sìnni futtìssi prufessùri; etc., etc.

– «Invece è vero!» – cassò – «Lo spreme dal centro! Ogni volta devo raccogliere io, tutto il dentifricio dalla fine del tubetto! Mentre lo sa, la disonesta, che mi fa imbestialire! Ma non sono cose da delinquenti?»

(Tutti, risollevati – già scappellati da prima, tranne la zoppa): Ah, vabbè; niente, niente; Professòre… ô Professòre…; non si deve preoccupare, per queste cose; non è che lo fa per cattiveria; non si deve fare il sangue acido; etc., etc.

– «Insomma!» – li sovrastò il famoso dottor * – «è una brutta cosa. E basta. Ora lavoriamo, signori. Movimento! Allora, che dobbiamo togliere a questo? A me già mi sta passando la voglia! basta, vàh! Svegliamolo!»

– «Ma come Professòre…»

– «Niente, niente, mi sono seccato. Svegliamolo. Magari lui lo sa che cosa gli dobbiamo levare.»

Il capro squarciato fu richiamato in vita.

Ci volle il bello e il buono, dato che s’era affezionato alle soffici lusinghe del coma narcotico, ma alla fine si risvegliò.

– «Bene, giovanotto» – gli disse, un poco scocciato, il famoso dottor * – «che vogliamo fare?»

– «E che vogliamo fare» – rispose Patonsio, ancora frastornato – «che ’ssàcciu io che dobbiamo fare? Ma lei cu è? Chi è ka vòle ’ri mìa?[9] Matre santa! Tutt’a pànza mi squartò! E che ci pàru, piscispàda?[10]»

– «Giovanotto, giovanotto! Le sembra che siamo qua per giocare? Eh? Favaloro, che fa, giochiamo qua?»

– « non si gioca e non si scherza!» – rincalzò la malformata, agitando in faccia a Patonsio un dito basculante in segno di sprezzante diniego – «Che t’hai mìsu ’na tèsta, maravìgghia?[11]»

– «Comunque, lasciamo stare gli scherzi ora.» – riprese il famoso dottor * – «Che cosa le dobbiamo togliere noi? Me lo vuole dire, per gentilezza?»

Patonsio era basito, sconcertato:

– «Ma lei che è, pazzo? Ma che sùgnu, kà, ’ne Mau-Mau?[12] Uno non si può addormìscere cinque minuti che subito ci volete scippare qualche cosa? Ma cose, cose dei pazzi! Io qua sono venuto a trovare a mio zio Rosario che c’ha la prostata. Forse che mi sono addormisciùto cinque minuti, e mi trovo tuttu squartatu com’a’n kràstu![13]» – strepitò imbufalito (inconsapevole d’aver dormito, invece, una notte intera, dato che la sera prima, vinto dal sonno, s’era adagiato su una barella) – «Ora mi cucite subito, qua, ’i vurèdda sfàtti[14], se no vi scàsso tutti a legnate! Ma che siete, tutti pazzi qua dentro?»

Patonsio, però, si sbagliava.

Il mondo è pieno, di pazzi.

Parola d’onore.

 

 


[1] Diciamo così… (N. d. A.)

 

 

[2] Poiché la tenebra della sera ormai sta per avvolgerci! (N. d. C.)

 

 

[3] Disdetta! (N. d. C.).

 

 

[4] Artigiana esperta nella detersione della biancheria (N. d. C.).

 

 

[5] Orsù, lieta deponi quelle letture illustrate scarsamente edificanti! (N. d. C.).

 

 

[6] Il primario amerebbe conoscere qualche fondante dettaglio sull’intervento da effettuare sul paziente al quale qui destiniamo ogni scrupolosa sollecitudine… (N. d. C.).

 

 

[7] Niente di niente!  (N. d. C.).

 

 

[8] Via, egregio maestro, la sua signora è un esemplare eterotermo: il “sangue” le ribolle, al solo odor di cucurbitacea verace! (N. d. C.).

 

 

[9] Cosa mi richiede ella? (N. d. C.).

 

 

[10] Santa Vergine Celeste! Il mio addome è dilaniato! Forse le ho l’aria del vertebrato acquatico? (N. d. C.).

 

 

[11] Cosa mai ti frulla pel capino, bizzarra creatura?  (N. d. C.).

 

 

[12] Forse mi trovo presso una temibile tribù di selvaggi antropofagi? (N. d. C.).

 

 

[13] Eviscerato come un caprone adulto (N. d. C.).

 

 

[14] Le interiora scompigliate (N. d. C.).

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[1] Cosa mi richiede ella? (N. d. C.).

[1] Santa Vergine Celeste! Il mio addome è dilaniato! Forse le ho l’aria del vertebrato acquatico? (N. d. C.).

[1] Cosa mai ti frulla pel capino, bizzarra creatura?  (N. d. C.).

[1] Forse mi trovo presso una temibile tribù di selvaggi antropofagi? (N. d. C.).

[1] Eviscerato come un caprone adulto (N. d. C.).

[1] Le interiora scompigliate (N. d. C.).

 

 

Staff Siciliafan