“Marocchinate”: la guerra privata di Capizzi nel ’43

I soldati marocchini scrissero una pagina vergognosa, macchiandosi di furti e stupri
 
Un anziano: «Facevano i comodi loro, violentavano le donne, ma gliela facevamo pagare»
 
Un vero e proprio occultamento della verità storica è stato compiuto sull'invasione alleata nella Seconda guerra mondiale, spacciata come una marcia trionfale. Solo negli ultimi anni si è fatta finalmente un po' di luce, mettendo in evidenza i crimini di guerra e le violenze inferte alla popolazione del Meridione durante la risalita della penisola da parte dell'esercito anglo-americano. Anche in Sicilia, nei giorni successivi allo sbarco del 10 luglio 1943, le forze alleate si mostrarono ben altro che "liberatori", scrivendo una pagina vergognosa di storia. Il segno lasciato dalle violenze perpetrate dai franco-africani ai danni della popolazione è impossibile da dimenticare, specialmente per le donne di alcuni paesi come Capizzi, un Comune della provincia di Messina sui Nebrodi.
Durante l'operazione Husky, la cittadina visse la sua guerra privata nei giorni che seguirono il 19 luglio del 1943, quando la 15ª divisione Panzergrenadie del generale Rodt si ritirò lungo la "linea dell'Etna" dove si svolse la cruenta battaglia di Troina. Questa ritirata lasciò Capizzi aperta all'occupazione da parte dei reparti del corpo di spedizione francese in Italia al comando del generale francese Alphonse Juin, truppe coloniali irregolari francesi e parte del Corpo di Spedizione Francese, composti da marocchini di etnia berbera, senegalesi, algerini, tunisini, montanari analfabeti del Maghreb, identificati tutti col termine "goumier" (da "goum", traslitterazione francese di "qum" che indica una banda, un clan o un villaggio). I primi "goumier" sbarcarono vicino Licata: oltre 800 marocchini al comando di ufficiali francesi. Quando a settembre vennero rimpatriati, furono accolti con trionfo a Fez per le vittorie riportate in Sicilia, mentre il col. Jouin, affermava che a Capizzi i marocchini erano entrati «in mezzo alla generale allegria della popolazione».
A Capizzi, invece, i "marocchini" accampatisi al Piano della Fiera e a M. Rosso, fermavano i civili che rientravano in paese per spogliarli di portafogli, orologi, oggetti d'oro. Essi consideravano le donne bottino di guerra e non si limitavano a strappare loro gli orecchini, ma le sottoponevano a barbari stupri. Pare, del resto, che il generale Juin avesse fatto diffondere tra i goumier un volantino che così recitava: «Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all'ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete». Da qui le violenze perpetrate nel 1944 nel basso Lazio che Vittorio De Sica raccontò nel film "La ciociara" (1960), tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia, che valse l'Oscar a Sofia Loren.
La giornata internazionale contro la violenza sulle donne appena trascorsa è stata un'occasione per rievocare questi tragici eventi con le donne della sezione Fidapa di Capizzi. Ma, per saperne di più siamo andate a bussare alle porte di anziani e anziane che hanno vissuto quegli eventi per raccogliere testimonianze.
Gli Inglesi, ci dice un capitino (classe 1923), portarono in Sicilia i marocchini «perché dicevano che "in Sicilia semu sarbaggi" perciò ci volevano selvaggi come noi. I marocchini erano di bassa statura e color marrone in faccia, vestiti con una coperta lunga (barracano), avevano capelli lunghi e intrecciati e portavano turbanti, senza calze e con gli zoccoli ai piedi. Ma siccome gli Inglesi non ci difendevano, i Capizzuoti ne ammazzarono tanti di marocchini, a colpi di bastone e con le roncole. Tanto danno facemmo loro, più di quanto loro non ne fecero a noi con le loro marocchinate. I marocchini venivano nelle masserie a truppa e facevano i comodi loro. Le donne di tre famiglie le violentarono, madri, zie, cognate, sorelle e figlie, tenendo gli uomini sotto la scopetta e perciò non potevano reagire. Violentarono una ragazza di 16 anni che era andata sola a prendere l'acqua alla sorgente. Ma i Capizzuoti non se la tenevano e fecero un'imboscata nel bosco. Una volta, al pascolo nel bosco trovai un elmetto, incuriosito mi avvicinai e dentro ci trovai la testa di un marocchino a cui l'avevano tagliata con l'ascia. Quella fu la guerra della città di Capizzi contro il liberatori, i vinnignammu (facemmo vendemmia di loro) con una guerriglia».
Un altro anziano (classe 1935) ci dice che «venivano a gruppi sui muli ed erano neri, s'amnmuccavunu zoccu capitava, magari i fimmini, certu, masculi erunu! (Prendevano e mangiavano ciò che capitava, anche le femmine, certo, erano maschi!). Ma erano selvaggi e i fimmini i marturiavunu (le donne le martirizzavano). Una volta maritu e mugghieri ammazzàru un marucchinu insieme. Siccome venivano a truppa, se in una masseria c'erano due, tre femmine, se le facevano tutte». E un altro (classe 1931): «I Miricani si mettevano i marocchini davanti perché erano selvaggi. Ma i Capizzuoti li ammazzarono e li diedero da mangiare ai porci. Quando potevano le donne se le nascondevano, ma queste lavoravano in campagna, raccoglievano le fave, strappavano l'erba intorno al grano verde, pulivano il grano per portarlo al mulino, non era facile tenerle nascoste».
Il racconto è doloroso e spesso reticente, non si ricorda volentieri e si ricorre a circonlocuzioni come nella testimonianza di un'anziana (classe 1922): «Nel caseggiato dove mio padre allevava la mandria, io ero la più grande dopo mia madre e successe quello che volle Dio». Anche nella vicina Cerami accaddero episodi simili. Un'anziana (classe 1929) ci dice: «Noi nel 1943 sfollammo in campagna in una masseria di mio zio. Mi ricordo la fame e lo spavento perché i marocchini si rubavano le femmine. Io sono di Cerami e i marocchini vennero in campagna a cercare da mangiare. Facevano paura solo a guardarli».
Ma quale fu la sorte delle donne stuprate, nubili o coniugate? La vendetta dell'orgoglioso capitino lavò l'onore (chi può dargliene colpa?), le donne non furono ripudiate e le nubili si sposarono quasi tutte: «Da questa violenza a Capizzi nacquero anche figli. Ma gli uomini se le tenevano le donne violentate perché non si erano passate un capriccio, ma era stata una disgrazia, perciò non le abbandonavano». Gli antropologi non se lo sarebbero aspettato forse questo comportamento dal maschio siculo che in questa storia fa miglior figura degli emancipati inglesi e americani… Per non parlare del coraggio delle donne di Capizzi che hanno convissuto con questa umiliazione e questo dolore mantenendo sempre alto il senso della loro appartenenza di genere, di donne, mogli e madri.
 
Marinella Fiume
 
 
Staff Siciliafan