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albanese-lucaChissà quanto avrà pianto, quanto si sarà disperato, quante volte avrà chiamato “mamma” fino a che la voce flebile non si è spenta sulle labbra aride, in quell’auto diventata fornace. 
Chissà quante volte ciascuno di noi, in questi tristi giorni dopo la tragedia, gli ha idealmente aperto quello sportello, liberandolo da quella trappola mortale, da quel caldo soffocante e da quell’aria irrespirabile. 


In una sorta di inutile rewind, ciascuno di noi ha desiderato che il papà tornasse indietro dopo quel fatale clic al telecomando che, nel chiudere l’auto, ne ha chiuso per sempre la speranza di vita; che un passante se ne accorgesse e infrangesse quel maledetto vetro; che la madre “avvertisse” che qualcosa di terribile stava accadendo e telefonasse a quel padre rivolgendogli una semplice, sicuramente rivelatrice, domanda: “Tutto a posto con Luca?”; che il nonno andasse qualche ora prima a prenderlo all’asilo, preso dall’irrefrenabile impulso di abbracciarlo e tenerlo un po’ con sé. Ma niente di tutto questo è successo: e quel tasto rewind gira il nastro da giorni, inutilmente, senza cambiare di una virgola il tragico finale.

Come al solito, la gente si spacca: colpevolisti e innocentisti discutono per ore scagionando e accusando, argomentando e confutando, assolvendo e condannando. Tanti accusano:  irreprensibili genitori che mai si macchierebbero di una simile atrocità; tanti altri difendono: umanissimi genitori che però, ugualmente, mai si macchierebbero di una simile atrocità.

Allora mi sono chiesta che differenza di fondo possa esserci fra i primi e i secondi. E, a parte l’umana, inevitabile diversità di natura e di pensiero, certamente una delle tante differenze è la capacità di guardare dentro se stessi. La capacità di scoprire dentro di sé che la “distrazione” che questa vita ci impone, l’inevitabile stress, il turbinio avvolgente dei nostri giorni, la stanchezza cronica che ci affliggono, ci portano sovente lontani mentalmente dai nostri figli.

Quante volte, pur avendo fatto di essi il centro assoluto del nostro universo, ce li siamo persi di vista per un attimo al mare, al centro commerciale, al supermercato, vivendo l’angoscia di non riuscire a ritrovarli fra la folla? Quante volte li abbiamo trascurati un po’ perché immersi nel lavoro, nella telefonata dell’amica alle prese con l’ennesimo problema, nei quotidiani affanni che ci rapiscono alla realtà per lunghi momenti?

E se in questi fatali momenti fosse successo a noi l’irreparabile? Se invece di riabbracciare tremanti ancora di paura il nostro piccolo ritrovato nella folla di un centro commerciale, lo avessimo perso per sempre mentre stavamo scegliendo il colore di un vestitino o la taglia del costume?

Se così fosse stato e non fossimo stati assistiti da quegli angeli che ce li hanno sempre riportati indietro, oggi saremmo noi a piangere i nostri figli e a vivere quel terribile senso di angoscia e colpa che nessuno psicologo potrà mai curare.

E’ quindi a quel mostro che c’è in ciascuno di noi che gridiamo la nostra condanna: a quel padre e a quella madre irreprensibili ma umani, che ogni tanto chiudono qualche file della propria mente che dovrebbe rimanere aperto, e non ne conoscono neanche la ragione: come al pc quando stiamo lavorando a un documento e d’improvviso scompare la pagina e va in fumo il lavoro.

Succede e basta.

E’ a quel mostro dentro di noi che urliamo tutta la nostra condanna, perché sappiamo di doverne avere paura. Perché lui è lì, in agguato, e potrebbe farci scoprire che non siamo così irreprensibili, e che non sempre tuteliamo i nostri figli come sarebbe necessario, e che non sempre saremo lì quando avranno bisogno di noi. 

Io non grido a quel mostro che c’è in me, perché so che c’è. Ne ho coscienza e ne ho timore, e spero che mai abbia il sopravvento sulla mia lucidità e sul mio immenso amore per i miei figli. 


Io prego per quel padre e per quella madre. Prego per i nonni, gli zii, gli amici di quella famiglia sventurata. 


Prego per quell'angelo, che guardando al cuore certamente puro del suo papà lo sta già consolando e perdonando, mentre il mondo continua a scagliare violente pietre,  lapidando con il suo giudizio un uomo ormai ferito a morte, che sconterà agonizzando, per tutta la vita, la pena intollerabile di sopravvivere alla propria creatura. Io non condanno, anche perché non ne avrei il diritto: io assolvo. 


Io, quella pietra, non la lancio.