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MISSIONE  ARGONAUTA CRONACA DI UN’ESTENSIONE DELLA BIODANZA

 

Continuando sulla scia del precedente articolo dedicato alla Biodanza o Danza della vita, la moderna disciplina per il raggiungimento del benessere emotivo, fisico e psicologico dell’uomo e per lo sviluppo del suo potenziale umano, nel seguente si parlerà di un suo particolare campo di applicazione, la Missione Argonauta, interpretazione simbolica del mito greco degli argonauti.

  Nella mitologia greca gli argonauti sono i circa cinquanta eroi greci che Giasone, figlio di Esone e discendente del dio Eolo, condusse con sé sulla sua nave Argo alla ricerca del Vello d’Oro di un ariete sacro. Gli argonauti quindi furono coloro che navigarono sulla nave Argo, che attraverso l’Eridano (l’attuale fiume Po) giunsero in Liguria e da qui in Sardegna, poi solcarono il Mediterraneo passando per Scilla e Cariddi, e dopo tante peripezie riuscirono a recuperare l’ambito Vello d’Oro.

  La Missione Argonauta nella Biodanza rappresenta la ricerca della propria animalità, della propria parte istintiva e del primordiale mistero della vita, attraverso avventure straordinarie e difficili, in un ambiente naturale forte e incontaminato, come può essere Ginostra, l’atavico villaggio abbarbicato sul fianco sud-occidentale dell’isola vulcanica di Stromboli. Infatti, questo breve reportage estivo narra di questo borgo, scelto appositamente per le sue caratteristiche naturali ancestrali, ancora incontaminate, dove la forza degli elementi facilita il viaggio interiore verso le proprie origini.

  In questo borghetto dai dintorni aspri e austeri, il tempo è rimasto incantato, renitente al richiamo della modernità che annienterebbe una straordinaria tipicità, ineguagliabile per fascino e stile di vita austero, almeno per chi lo ama, magari per qualche settimana utile per riscoprire sensazioni ed emozioni che la modernità ha completamente soffocato, alienando l’uomo dalla natura, la quale poi non riesce ad amare e a rispettare adeguatamente. Fino al 2004 non c’era nemmeno la corrente elettrica, da quell’anno in poi garantita da pannelli fotovoltaici e gruppi elettrogeni a gasolio. Non c’è ancora acqua corrente, né strade, né tantomeno traffico veicolare. Raggiungibile solo via mare, solo nel 2004 è stato inaugurato un pontile di attracco per aliscafi e traghetti. Prima a Ginostra si accedeva attraverso un porticciolo, “u pirtusu”, il più piccolo del mondo, come informava con vanto una rozza tavola di legno scritta a mano e attaccata a uno scoglio. Talmente piccolo che i turisti, coi loro bagagli, venivano trasbordati al largo dall’aliscafo su una barca. Avvicinandosi dal mare, il visitatore estivo rimane ammaliato dall’imponenza burbera e taciturna del monte vulcanico che si staglia alto e domina sul mare. E resta pure abbacinato dal paesaggio selvaggio e a forti tinte invaso dal sole cocente, col suo gruppuscolo di case bianche incredibilmente abbarbicate sul pendio e con i fichi d’india e gli arbusti stenti e disidratati.

  Dall’angusto molo partono i mulo-taxi (oggi coadiuvati dalle carriole a motore) carichi di bagagli, che s’inerpicano indolenti su un percorso a tornanti rozzamente gradinato in cemento. Il breve sentiero principale del villaggio, che come una terrazza naturale si affaccia vertiginoso sul mare, conduce al bar (che la sera è suggestivamente illuminato da fiaccole a petrolio, dato che non c’è ancora illuminazione pubblica), all’unico bazar, alla chiesa bisognosa di restauro e all’unico negozio di alimentari. In salita e serpeggianti, dal principale si dipartono gli altri viottoli secondari che portano alle varie casupole disposte in maniera disordinata tra ulivi, fichi d’india e alberi da frutta radicati su un riarso terreno in pendio. In una di queste bianche abitazioni, molto in alto, su una panoramica terrazzina a essa unita, ogni anno nel mese di agosto gruppi di moderni aspiranti Argonauti biodanzano compresi e sperimentano emozionanti vivencias condotte dall’insegnante di Biodanza Anna Maria Ciccia. Alla fine di ogni sessione mattutina poi, a turno danzano il proprio animale, quello che ognuno sente più rappresentativo.

  Non può esserci posto più adatto per loro, cercatori del vello d’oro, simbolo questo dell’animalità persa che allontana l’uomo dalle proprie origini. Essi ogni anno celebrano la vita, immersi per sei giorni in un raro ambiente in cui si combinano con viva forza primitiva i quattro elementi. Il vulcano, che li osserva maestoso col suo pennacchio di fumo nero e  che ogni tanto brontola con boati cupi simili a tuoni. Il mare, possente, rumoroso e selvaggio che circonda l’isola. L’aria, che il vento energico delle Eolie rende viva, come animata. La terra, calda e materna.

  A metà dei sei giorni di stage, i novelli argonauti ogni anno tentano la scalata del vulcano per immergersi più animalmente negli elementi. Provvisti dell’occorrente per la faticosa salita, partono nel pomeriggio sotto un sole bruciante, al seguito di una guida esperta. I coraggiosi argonauti si lasciano dietro la dimensione pur sempre domestica del villaggio per avventurarsi, sudando e faticando, verso luoghi ancora più aspri. Dal Timpone Punta u Corvu, situato a circa 120 metri dal mare, la salita si fa più dura. Devono raggiungere i 926 metri della vetta più alta. Per tre ore  si arrampicano per sentieri erti e accidentati, sdrucciolevoli e polverosi, tra arbusti di vario genere e cespugli di capperi. Al tramonto arrivano in una vallata dall’aspetto lunare, Purtedda d’a Ginostra-Cimitero, col suolo intatto di nera cenere in cui gli scarponi sprofondano. Il silenzio è surreale. Dietro, l’orizzonte marino sembra un lontano specchio appannato, pallido e rossastro nella semioscurità del tramonto. Giunti al lato opposto, si vede l’altro tratto di mare, già più scuro. Alla fioca luce delle torce si sistemano precauzionalmente gli elmetti sulla testa e salgono l’ultimo sentiero pervaso da un acre odore di zolfo, fino a trovarsi su una sottile striscia di terra cinerea, a 200 metri sopra i due crateri.

  Lo spettacolo ineffabile ripaga pienamente della stanchezza gli argonauti. Si sgravano degli zaini e si stendono sopra il suolo che è impressionantemente caldo del fuoco sotterraneo, e consumano una cena frugale, interrotta ogni tanto da spettacolari spruzzi di rossi lapilli infuocati. Nello stesso istante, in lontananza, dal mare si vedono saettare una miriade di flash fotografici di appassionati imbarcati per assistere dal basso a ciò che somiglia a uno scenario di fuochi d’artificio. Sopra, quella piazzetta privilegiata si va riempiendo di numerosi gruppi al seguito di altre guide.

  A tarda sera tutti ridiscendono a distanza di sicurezza, fino a degli spiazzi vagamente pianeggianti, e si infilano dentro ai sacchi a pelo per tentare un sonno difficile sopra il duro suolo e sotto un cielo stellato e palpitante da mozzare il fiato per la sua bellezza. All’alba la guida dà la sveglia, e gli argonauti si preparano per la discesa dalla parte di Stromboli. L’ultimo tratto, A Schicciola, un ripidissimo canalone, lo scendono a rotta di collo, sprofondando coi piedi  nella sabbia scioltissima, felici, estatici, attratti  dal mare. Sulla spiaggia di fini ciottoli si liberano degli indumenti e di corsa si tuffano in mare, alle sette del mattino, con un’acqua che è insospettabilmente calda. Nuotano gioiosi come bimbi tra le lunghissime onde che li cullano dolcemente. A quanto pare, almeno per il momento, il Vello d’Oro è stato recuperato.

  L’ultima sera dello stage, i vittoriosi argonauti, sull’alta terrazzina rendono simbolicamente omaggio ai prodotti della terra con un banchetto a base di frutta e miele. Ognuno ne mangia e ne fa dono agli altri, seduti per terra. Poi si raccolgono in un momento di profonda comunione. E’ davvero il caso di dire che a Stromboli questi moderni argonauti ogni anno la loro missione riescono a compierla.

Angelo Lo Verme