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Ducezio come simbolo attuale di Giuseppe Vazzana I. Considerazioni preliminari… Poco noto al pubblico isolano inferiore a una certa fascia generazionale – diciamo, a oggi, nel 2005, ai cinquant’anni d’età – ma da qui in poi ben conosciuto, anche solo come riferimento nominale, il personaggio di Ducezio, condottiero del V sec. a.C. appartenente all’etnia sicula, sembra risvegliare certi sentimenti sicilianisti rimasti vivi negli intellettuali che avevano vissuto con grandi speranze la seconda epoca post-bellica, come occasione storica per affrontare i mali secolari di una Sicilia perennemente al carro dei vincitori o terra di nessuno abbandonata alle brame di potere di chiunque volesse appropriarsene. In questo quadro generale l’impronta di Ducezio nella memoria storica dei siciliani colti non ha registrato limiti temporali definiti ed è tuttora ben vivo, sebbene frustrato dall’esiguità della testimonianza storiografica. Così molti cinquanta-sessantenni e oltre del 2005 bramano di poter finalmente approfondire la conoscenza di questo personaggio storico di cui hanno tanto sentito parlare, ma quasi sempre solo in termini di fugaci citazioni mai esaurientemente approfondite. Molti più siciliani, specialmente giovani, che hanno solo orecchiato frettolosamente di Ducezio, considerano semplicemente il condottiero siculo un lontanissimo precursore di Mussolini e il nome una forma arcaica per Duce. A costoro diremo con serenità che Ducezio ci viene riferito da Diodoro Siculo nella forma greca di Douketios, non certo nome effettivo della personalità storica in questione, ma che possiamo supporre appartenere alla tradizione onomastica sicula, che vede spesso finali per soggetti maschili in – on o – is. Ducezio era dunque l’onorifico appellativo dato dai Sicelioti (gli abitanti delle città siciliane di fondazione e perdurante cultura greca) al loro temutissimo, ma anche tanto ammirato nemico, che pur nelle sue oscillazioni pendolari e nei rapidissimi cambiamenti di fortuna, avrebbe potuto ben ricordare loro, in anni poco lontani dall’epopea duceziana, il non meno contraddittorio – ma amato, ammirato e temuto – Alcibiade, che avrebbe tenuto Siracusa col fiato sospeso per la propria sorte, proprio come il condottiero siculo. Il nome Ducezio va dunque interpretato come “colui che i Siculi chiamano Douk (pr. Duk o dux) oppure Douke (pr. Duke o duce), che noi greci interpretiamo come condottiero, ovvero colui che noi chiameremmo strategos”. II. Cenni storici su Ducezio Si suppone che il condottiero sia nato a Mineo poco prima del 480 a.C., anno della grande vittoria a Imera delle forze siceliote, affiancate da contingenti siculi e sicani, contro i Cartaginesi che tentavano di espandersi nell’Isola a partire dal lembo occidentale già da loro occupato. Inoltre a quell’epoca la Sicilia orientale autoctona era Siracusa, Agrigento, Gela. Sappiamo con certezza quando nacque la sua idea guida, la synteleia, ovvero l’obiettivo di costituire una federazione protostatuale delle città-stato appartenenti all’etnia sicula, incalzata in modo sempre più pressante dalle mire egemoniche delle ricche città siceliote della costa, sotto la guida di un re carismatico comune riconosciuto tale dai re locali. Ciò accadde dopo la liberazione di Katana dai mercenari fedeli ai tiranni dinomenidi aretusei, avvenuta intorno al 461 a.C. a opera dello stesso Ducezio e di contingenti militari inviati dalla Siracusa democratica che aveva da poco abbattuto Trasibulo e ora intendeva rendere definitiva la sua vittoria sull’antico regime. L’espulsione di quelle truppe, che si rifugiarono a Inessa, e gli elogi tributatigli dagli alleati, convinsero Ducezio, che fino ad allora era stato un brillante guerriero professionale assai rispettato dai Siracusani, che la sua gente si sarebbe salvata dalle mire espansionistiche di questi ultimi solo federandosi in una realtà storico-politica unitaria. Dopo la vittoria a Katana il condottiero ottenne un importante successo nei confronti degli ultimi contingenti mercenari proprio a Inessa, espellendoli definitivamente dalla Sicilia. Il messaggio della synteleia dopo Katana e Inessa si espande rapidamente in tutta la Sicilia orientale, venendo a costituire un serio pericolo per Siracusa, Gela e Agrigento, tanto più che nuovi successi militari arridono al condottiero, come la conquista di Morgantina, nelle vicinanze di Aidone, e di Motyon, forse ubicata sulla sommità di monte Vassallaggi, presso S.Cataldo (CL), a quell’epoca ridotto militare (phrouron) agrigentino. Nel frattempo, sull’onda dell’iniziale benevolenza nei suoi confronti mostrata dai democratici siracusani, che grazie al suo aiuto avevano potuto stornare definitivamente il pericolo di un ritorno dei Dinomenidi sotto le insegne dei mercenari, Ducezio fonda due nuove città sacre, Menainon e Palikè, presso il lago Naftìa, nella pianura tra Palagonia e Mineo. La seconda delle due città era destinata a diventare un centro di primaria importanza politica, soprattutto perché, a seguito di una sua importante decisione politica, divenne la sede del Tempio dei Gemelli Palici, molto importante per cementare l’unità religiosa dei Siculi. Dopo pochi anni Siracusa e Agrigento scagliano una prima offensiva con l’obiettivo di distruggere proprio Palikè, ma le truppe coalizzate sotto il comando di Bolcone vengono duramente sconfitte da Ducezio sotto le mura della città. Poco dopo, al ritorno a Siracusa, il generale sarà condannato e giustiziato con la falsa e disonorante imputazione di intelligenza col nemico. Siracusa e Agrigento, consce del pericolo di un’insurrezione generalizzata non solo dei Siculi ma anche dei Sicani dell’entroterra occidentale, organizzano allora una nuova spedizione militare, di cui non conosciamo gli strateghi, che si rivela più efficace della precedente, concretizzandosi in due vittorie consecutive su Ducezio nei pressi di Menainon, la seconda delle quali risulterà fatale per le sorti del condottiero e della synteleia. III. Fonti storiografiche La figura storica di Ducezio ci è nota attraverso il racconto che ne fa’ nell’XI e XII libro della Bibliotheke Historiké Diodoro Siculo – dossografo nativo di Agira vissuto nel I secolo a.C. -, il quale attinge a notizie fornite da Timeo di Tauromenion (Taormina), che ne scrisse verso la fine del IV sec. a.C., in una Storia della Sicilia andata perduta, ma della quale molti frammenti furono incorporati in opere di redazione posteriore. Timeo è storiografo dell’età di Agatocle di Siracusa. Secondo la norma del mondo antico, la buona o la cattiva sorte degli intellettuali dipendeva dalla compiacenza che mostravano nei confronti di chi deteneva il potere in quel momento. Difficilmente essi potevano esprimere giudizi personali su argomenti che a qualsiasi titolo possedessero una valenza politico-ideologica attuale, pena la caduta in disgrazia e non di rado la perdita della vita. L’esempio che subito verrà in mente al lettore è quello di Platone, che ebbe a coltivare l’umanissima illusione di convincere il tiranno aretuseo Dionisio il Vecchio, straordinariamente vitale e aggressivo a onta del nome, a instaurare a Siracusa la Repubblica dei Filosofi. Probabilmente Dionisio stimava davvero Platone e aveva pensato di fregiarsi della sua intelligenza per abbellire la tirannide, senza però prender troppo sul serio, almeno all’inizio, i propositi del filosofo. Questi però dovette insistere eccessivamente nel suo progetto utopistico, col risultato di indurre il tiranno a sbarazzarsene vendendolo schiavo. Da tale condizione il teorico del mondo delle idee fu affrancato da amici ateniesi che ebbero a riconoscerlo in un mercato dove si erano recati appunto per comprare… degli schiavi. Vero o inventato che sia questo racconto non si può negare che esso esprima nel modo più icastico la condizione dell’intellettuale in epoca classica o ellenistica, dove l’attenzione al vento che tirava era condizione di pura e semplice sopravvivenza. Tutto ciò ci serve a spiegare la curiosa strutturazione del racconto delle imprese di Ducezio a opera di Timeo, a cui attinge senza farsi troppe domande metodologiche Diodoro Siculo, al quale va comunque accreditato il merito di averci fornito un’incredibile messe di notizie sul mondo antico. Che nella città d’origine di Timeo, Tauromenion, si conservasse un ricordo, sia pure nebuloso, di un’epoca in cui era stata abitata dai suoi fondatori Siculi, è possibile. Egli era senz’altro un siceliota di fervente cultura greca, ma non doveva essergli indifferente la memoria storica sicula, ancora in parte accessibile attraverso la perdurante tradizione orale dell’antichissimo popolo di origine italica. Se non avesse avuto stima dei popoli autoctoni, nella sua Storia della Sicilia avrebbe potuto ignorare del tutto la vicenda dei Siculi e di Ducezio, che oggettivamente è dipinto, per la quasi totalità dello svolgimento narrativo, come un capo abile, lungimirante e carismatico, un eroe leggendario difficilmente eguagliabile, il secondo irredentista di cui si abbia notizia storica, dopo il re sicano Teuto di Ouessa, anteriore al nostro di un secolo Timeo parla di Ducezio così bene e con tale dovizia di particolari da indurre l’ovvia conclusione che in profondità egli simpatizzi con il condottiero. Ma i Siculi, benché ripetutamente sconfitti, umiliati e assoggettati, al tempo di Timeo sono ancora un’entità etnica numericamente nutrita e di grande vigore temperamentale, temuta dai Sicelioti dominatori e dopo di loro perfino dai Romani, che li ebbero contro nelle guerre servili del II sec. Timeo avrebbe dunque potuto ignorare Ducezio, ma non lo fece. Ne narrò piuttosto come di un eroe inficiandone però la memoria con un finale in cui lo dipinge come un indegno traditore, finale che in realtà rappresenta quella che nel linguaggio giornalistico odierno verrebbe considerata una “sentenza suicida”: cioè una sentenza di condanna così palesemente infarcita di elementi assurdi, logicamente incongrui e fattualmente non provati, da dover essere necessariamente invalidata nel processo di grado successivo, tanto da indurre il sospetto che l’intera operazione sia stata architettata per consentire la successiva assoluzione dell’imputato, lasciando i giudici pirandellianamente indenni dall’accusa di averlo favorito in maniera troppo scoperta, anzi, caso mai, additandoli come colpevoli di aver ecceduto in zelo, per aver dato come certi argomenti sfavorevoli che in realtà erano solo dubbi. L’accusa denigratoria principale, quella che dovrebbe avvilire il prestigio del capo guerriero presso i suoi discendenti, era di aver abbandonato il suo popolo a seguito dell’ultima sconfitta, a Menai, e dopo essersi fatto trascinare a Siracusa in catene, aver chiesto la parola nell’agorá, perorando la propria salvezza in cambio della promessa di non sostenere più la causa della synteleia, l’unità politica e culturale dei Siculi. E di essere riuscito nel suo intento, grazie a inusitate capacità attoriali, tanto da commuovere gli ex-nemici siracusani, che non solo gli concedono salva la vita, ma lo inviano a Corinto a vivere un esilio dorato, col conforto di una più che generosa pensione! Proprio loro, che avevano condannato a morte il generale aristocratico Bolcone per non essere riuscito ad abbatterlo nella battaglia di Paliké, conclusasi con una dura sconfitta degli attaccanti siracusani! Questa “sentenza suicida” rappresentò una cortesia di Timeo al tiranno Agatocle, che, come i suoi predecessori, era nemico giurato dei Siculi, al cui acume però non sfuggì la contraddizione assoluta tra il ritratto eroico del personaggio e lo squallido finale, frutto d’artificio, che lo avrebbe scagionato del tutto presso la posterità. Ed è per questo, come per altri conti ancora aperti, che costrinse Timeo a fuggire esule ad Atene, vanificando le pazienti piaggerie dello storico taorminense. IV. Attualità di Ducezio La Sicilia di oggi – anno 2005 – è una terra ricca di simboli naturali che possano esprimerla, a partire dall’Etna alle infinite bellezze naturali presenti ovunque nel suo territorio. È ricca anche di riferimenti umani da esaltare e da cui trarre lezione di vita, spesso guardando alle motivazioni delle loro tragiche morti. In verità, l’isola tutta, che spesso viene descritta come soporifera, acquiescente in tutto, sottomessa alla tirannide di una solarità che essicca anime e piante, in altri tempi è stata vigorosa e combattiva come non mai, non certo in posizione di retroguardia nella difesa di valori prima etnici, poi religiosi, patriottici e civili. Che vi siano delle analogie tra Ducezio douk dei Siculi e i vari duces della romanità fino a quello della modernità, Mussolini, è un fatto puramente linguistico che va ascritto alla parentela del siculo con il protolatino e nulla ha a che vedere con le fugaci polemiche della contemporaneità. Ducezio evoca inoltre a certi frettolosi orecchianti di storia lo pseudo-ricordo di un personaggio non si sa quanto lontano nei secoli, connesso con lo spettro del sicilianismo separatista. Questa tendenza storica emerse a più riprese dopo l’unità d’Italia, talora come alimento ideale di un certo banditismo che cercava giustificazioni politiche, spesso come semplice corrente d’opinione, in pochi casi come progetto di lotta armata, come lo sfortunato tentativo del prof. Antonio Canepa, morto con alcuni suoi allievi appartenenti come lui all’EVIS (Esercito Volontari Indipendentisti Siciliani), nel corso di uno scontro a fuoco con i Carabinieri alla fine del 1945, presso il ponte di Primosole, a poche centinaia di metri dal delta del Simeto, che sfocia in mare pochi km a sud di Catania. La singolarità dell’indipendentismo siciliano novecentesco consiste nel fatto che agli occhi della Sinistra è sembrato di destra appunto a causa del suo sicilianismo, antitesi assoluta di quell’incerto supervalore conosciuto come internazionalismo, e alla Destra è sembrato di sinistra per il suo irredentismo contro l’imperialismo greco-siceliota che poteva anche essere letto, mutatis mutandis, in chiave americana post-bellica, in epoca in cui prodotti industriali, cultura, ideologia e basi militari statunitensi di fatto invadevano l’Europa e in specie il Mediterraneo. Per il Centro poi, costantemente maggioritario, Ducezio e il sicilianismo rappresentavano una terribile patata bollente d’aspetto politico proteiforme, con la quale era bene evitare contatti. Su tutto ciò pesavano tragicamente gli eroi negativi dell’immediato secondo dopoguerra della Sicilia orientale, ad es. i banditi Giuseppe Russo e Vincenzo Stimoli di Adrano, e i crimini di Salvatore Giuliano, culminati nella strage di braccianti inermi avvenuta il primo maggio 1947 a Portella della Ginestra, in prov. di Palermo, Sicilia occidentale. In tutti costoro un vago richiamo a una Sicilia libera e anticomunista faceva da sfondo ad atti di natura puramente criminale o stragista con fini eversivi. Se a questo si aggiunge la rapida ricostituzione della rete mafiosa dopo lo sbarco degli americani a Gela nel ’44, col suo consueto richiamo di facciata a spiriti indipendentisti, ecco che i pregiudizi contro il sicilianismo si condensano in una colata che cementifica in un unico blocco negativo, con varie ma sempre svalutanti motivazioni, tutte le età della storia siciliana dove non s’intravedessero bagliori di preveggenza socialista, ovvero la storia dell’isola tout court . Lo stesso Ducezio, vissuto in un’epoca ben lontana da ogni sospetta coinvolgibilità nella genesi delle correnti di pensiero politico attuale, ha risentito pesantemente di pruderie culturali e sospetti ideologici, ed è stato costretto al reiterato silenzio dei secoli, a onta delle indubbie suggestioni della synteleia. Il ricordo di Ducezio è rimasto comunque ben vivo nella memoria storica di un ceto intellettuale, non necessariamente costituito da professori ma anche da appassionati senza titolo di studio superiore o universitario, poco appariscente ma vivido, numeroso e tenace, a cui quest’opera si rivolge. In questo senso la memoria del condottiero non ha risentito della sua lontananza millenaria. Nonostante la sua caduta sotto tabù il sicilianismo/irredentismo/ indipen-dentismo oggi autonomismo l’aspirazione a una definita identità storica siciliana dopo Ducezio potè annoverare le rivolte servili antiromane del II e I sec. a.C., il rifiuto cristiano delle divinità pagane ed esoteriche dei primi sec. d.C., la resistenza contro l’iconoclastia bizantina e le invasioni arabe del primo millennio, le sanguinose rivolte contro Federico II di Svevia nel XIII sec., i Vespri Siciliani antiangioini del XIV sec., le rivolte antispagnole del XVII sec. Se si guarda all’Ottocento si accampa subito allo sguardo la sua incredibile passione e l’entusiasmo filounitario. Dal martire catanese Antonio Piraino, uno dei primi patrioti italiani, condannato a morte per aver cospirato contro il regime borbonico, nel 1801, alle insurrezioni di Catania e Palermo del 1848, seguite da sanguinose repressioni. Per non dire dell’entusiasmo suscitato dallo sbarco dei Mille (1) . 1) Ne fu pendant l’insurrezione di Bronte repressa da Nino Bixio, infinite volte citata come esempio della doppiezza garibaldina. Ma in che modo avrebbe dovuto essere trattata quella sanguinosa rivolta spontanea, che ebbe caratteri di efferatezza e brutalità inaudite, taciute dai suoi cronisti interessati del ’900? “Il 4 agosto nel ducato di Bronte ai piedi dell’Etna, in un’immensa tenuta gestita da un amministratore favorevole ai garibaldini, i contadini con a capo l’avvocato rivoluzionario Nicola Lombardo s’impadroniscono della proprietà e massacrano l’amministratore e i suoi aiutanti. Tocca a una colonna garibaldina ristabilire l’ordine. Lombardo e quattro suoi complici saranno condannati a morte e fucilati” (Max Gallo, Garibaldi, Milano, 1982. Verga allude a questi fatti nella novella Libertà). E ancora poi lo straordinario innamoramento di Catania per la figura di Garibaldi che illuminò vari decenni di vita cittadina fin oltre la fine del secolo per riaccendersi nella figura di un Mussolini, tragicamente equivocato come un secondo eroe dei due mondi, salvo poi a risvegliarsi bruscamente nel secondo dopoguerra tra le braccia poco materne della mafia, che rappresenta una mera perversione della grande e generosa cultura popolare siciliana, ovvero l’istituzione invisibile che sfrutta l’isola e la consegna in mano a padroni ancor più insondabili. Sul piano della lotta contro la mafia la Sicilia ha avuto negli ultimi decenni molte decine di martiri, da sindacalisti come Salvatore Carnevale e Placido Rizzotto a politici come Pio La Torre, Piersanti Mattarella e Salvo Lima, ai magistrati Giovanni Falcone, Nino Borsellino e le loro scorte, a Rosario Livatino, a carabinieri come il cap. Basile e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’ispettore della polizia di Stato Boris Giuliano, al commerciante palermitano che si ribellò al racket delle estorsioni e pubblici esercizi Libero Grassi, a giornalisti come Mauro De Mauro, Giuseppe Impastato, Mauro Rostagno, allo scrittore e drammaturgo catanese Giuseppe Fava, fondatore dell’epica rivista di denuncia I siciliani, al redattore del quotidiano La Sicilia Giuseppe Alfano. L’isola ha avuto anche uomini che hanno difeso la libertà d’insegnamento dal totalitarismo, come il prof. Orazio Salanitro, arrestato dai fascisti, poi consegnato ai nazisti e morto nel ’45 nel campo di concentramento di Mauthausen, uomini morti per la difesa della democrazia nel luglio 1960, quando a Genova, Bologna e Reggio Emilia vi fu un’imponente reazione contro il governo Tambroni. Vi partecipò anche Catania, che lasciò sul selciato il giovane operaio di Agira Salvatore Novembre. Altri ancora nel corso degli anni ’60 hanno difeso la dignità e gli interessi dei lavoratori, pagando con la vita, come i morti di Avola. La Sicilia quindi non s’identifica né con una terra d’asservimento, di feudalesimo rurale e urbano, di clientelismo e sottogoverno, né tantomeno con la mafia, che addirittura ne viene additata come simbolo folkloristico. La Sicilia è stanca anche della cosiddetta sicilianità, sentimento evanescente e indefinibile, di una peculiarità inafferrabile, fatta di malinconie che sembrano uniche e irripetibili, di fragranze, suggestioni, seduzioni mediterranee, ecc.: nulla che abbia caratteri di unicità planetaria e che possa fungere da guida ad azioni veramente costruttive. La Sicilia rappresenta idealmente una terra libera eppur legata all’Italia che tanto ha amato e amerà ancora finchè questa, a sua volta, amerà la nostra Sicilia, che vuol avere un nuovo fine comune, una nuova synteleia, che vuol dire nel nostro caso libertà e dignità dell’uomo planetario, non nella modalità autolesionistica e insostenibile dell’ospitalità forzata a profughi che da tutto il mondo convergono a centinaia al giorno verso le sue spiagge, ma nella forma dell’ospitalità alle idee, ai progetti e ai valori ecumenici, i quali, se ben alimentati, saranno di sicuro vantaggio per le nazioni dalla cui miseria quelle genti fuggono. Terra di fini comuni, la Sicilia, terra a cui Ducezio può ancora dare il suo nobile suggello. Salvo Vazzana Fonte: http://www.cataniaperte.com/ Disegno di Mario Girolamo Ruffino da: Ducezio e i Siculi di Mimmo Chisari – "Collezione SiciliAntica" 2009 – Angelo Salvo VazzanaVisualizza altro

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