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01Domenica 10 gennaio, alle ore 11,00, a Casale Borghese, via Federico II di Svevia, 6 a San Gregorio, sarà inaugurata la mostra personale di Enzo Federici dal titolo “Visioni e canto della Terra”. Sarà visitabile fino al 12 febbraio.

Quella di Enzo Federici è una pittura che ha nel paesaggio che gli è familiare, l’Etna e i dintorni del vulcano, non il suo pressoché esclusivo tema d’elezione, ma una sorta di vocazione del profondo, di fatalità cromosomica cui è subordinata ogni scelta sul piano di tecniche e modalità operative: che, d’altra parte, non conseguono in maniera meccanica, perché quel richiamo è declinato nella sfida portata sul terreno dei materiali di lavoro, con cui Federici deve misurarsi, come è tenuto a fare con la natura dei luoghi chi li abita per viverci, per venirci a patti o affrontarla a viso aperto. Sulle grandi tele a olio, sono gli spazi di un versante o l’altro del vulcano a insediarsi, per ritrovarvi stratificazioni nuvolose e geologiche in cui la dimensione mediana e antropica – cui non si concede più di qualche diroccato avamposto o disertata retrovia (ruderi d’un anfiteatro; rovine di necropoli; chiese dirute o case scoperchiate) a presidiare, defilati, lo sfondo – lascia la scena a forze che nessun mito verrà a civilizzare.

Il profilo di crateri e valloni attraversati da canali lavici, tracciato in modo da riconoscerne le generalità, pone un argine, sottile ma intransigente, a quello che, sulla scia di Kant, si potrebbe definire il sublime dinamico di questi grandi ritratti dell’identità fisica e visiva dei luoghi. Quel dinamismo, nel mutare dei materiali, passa dal soggetto alla tecnica, dalla scena raffigurata all’esecuzione dell’opera: Federici è l’unico o se non questo, il primo, che io sappia, a utilizzare il silicone come materiale e strumento della pittura. Le proprietà plastiche del silicone dettano le loro condizioni: il silicone ha tempi di fissaggio ristretti, che esigono rapidità di scelta e di esecuzione, raddensa sulla tela – di lino: ogni altro tessuto, invece di trattenere, lascerebbe scivolare il materiale – e occorre che la forma sia conseguita e il colore distribuito prima che raggrumi. Il silicone reca l’impronta, il calco del gesto, ne trascrive pressione e velocità, che, però, devono essere costanti, controllati come le linee di un disegno che non ammette esitazioni o discontinuità: solo così è la registrazione plastica della gestualità che modella, si può dire, tanto quanto dipinge. Proprio perciò, nella sua sintesi dinamica, la ‘carne’ riveste il gesto privandolo delle pause in cui si sente il respiro del colore. Ora, quel respiro ha assunto la consistenza del corpo in cui circola, della materia che ne è imbevuta e che vi rassoda e concresce come una fibra organica, come un tessuto adiposo. Perciò vediamo le linee risolutamente tracciate e la loro direzione, in alto, in basso, in obliquo, è determinante come linea di forza o di marcia rispetto alle figure: che non sono disegnate, ma definiscono quanto sono definite dalle zone di colore, uniformemente distese, per scaturirne in masse aggettanti o appiattite – un massiccio spiovente che s’inarca in una cresta vulcanica; una palma che zampilla in un fiotto luminoso o in una fontana lavica fossilizzata. Se le incandescenti velature degli oli non filtravano, davano libero corso agli umori che il colore reperiva nelle immagini, luogo d’origine dell’emozione che ne era sopraffatta, ora, il silicone non disciplina, si fa carico di quell’energia motoria, essiccata, combusta o solo sopita, ma ugualmente indomita.

In breve, il silicone porta le forze degli elementi a un estremo in cui quella forza affiora nel costrutto schematico, geometrizzante delle cose, in un archetipo che nessuna potenza può piegare indefinitamente oltre quella stilizzazione visiva: non ‘abbellisce’ o ringiovanisce artificialmente le cose, da cui è distante. L’orologio e la bicicletta sono lì a segnare una distanza senza tempo e un percorso già concluso, un traguardo raggiunto fin dal primo istante o all’ultimo minuto, con la ruota e il quadrante che alludono a un medesimo dinamismo inesorabilmente inarrestabile o inesorabilmente bloccato di un mondo tenuto insieme, in molti casi, da un binario morto che sutura i riferimenti minimi di scena lacerata e ritagliata dai paesaggi che attraversa. Giri o sia inceppato, l’orologio segna sempre l’ora della favola o quanto basta all’incanto: una palma e una torre campanaria sono già un miraggio ovvero quanto resiste all’incanto non meno che ai cicli della storia e della natura; la ruota del destino, giri a vuoto o sia lanciata alla rincorsa, non va oltre l’orizzonte evocato da quei due simulacri; nello spazio perduto della favola e nel tempo ritrovato nel rinarrarla; lo stesso peso specifico hanno la luce e la tenebra, può essercene di più o di meno dell’una o dell’altra, ma splendono ugualmente di una stessa euforia cromatica, anche se in una metafisica ‘notturna’ e tanto più magica.

Rocco Giudice.

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