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logo di Patrizio AugelloIl termine sicilianità è quell'insieme di caratteristiche attribuite all'abitante della Sicilia, definite anche col nome di ‘sicilitudine’; esse costituiscono dunque la personalità del siciliano.

Secondo Leonardo Sciascia, la sicilianità è:

«La sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell'arte.»

Che cosa contraddistingue dunque il siciliano dalle altre popolazioni del Sud d’Italia?
Qui proveremo a creare un percorso letterario, tramite gli stralci di alcuni scrittori, filosofi, pensatori, siciliani e non, che si sono posti la questione, per capire chi è il siciliano. Cicerone scriveva che i siciliani sono gente sospettosa, nata per le controversie, e Giovanni Maria Cecchi, commediografo fiorentino del Cinquecento, rincara la dose definendo i siciliani:

«Ardenti amici e pessimi inimici, subbietti ad odiarsi, invidiosi e di lingua velenosa, di intelletto secco, atti ad apprendere con facilità, e in ciascuna operazione usano astuzia.»

Ma nelle sue “Verrine”, Marco Tullio Cicerone aggiunse:

«Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito.»

Il chierico di origine francese Pierre de Blois, arcidiacono di Londra e uno dei più noti umanisti dell'XI secolo, in una lettera indirizzata all'arcivescovo di Messina, affermava:

«La Sicilia […] è sgradevole per la cattiveria dei suoi abitanti al punto che a me sembra odiosa e quasi inabitabile. […] come pure le frequenti velenose calunnie, il cui immenso potere pone la nostra gente, per la sua disarmata semplicità, in costante pericolo. […] A questo vorrei aggiungere che, com'è scritto nei libri di scienza, gli abitanti delle isole sono, per lo più, gente infida e quindi gli abitanti della Sicilia sono amici falsi e, in segreto spregiudicati traditori.»

Fernand Braudel, storico e direttore degli Annales francesi, definì la Sicilia come un microcosmo, che accoglie in forme miniaturizzate ma nette, l'eredità di una storia lunghissima e complessa. Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo “Il Gattopardo”, sostiene che il siciliano è refrattario alla storia:

«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.»

Il siciliano si sente innanzitutto parte della sua regione, della sua terra, della sua storia, poi, parte di quello che è il ruolo investitogli dalla società, la sua autorità, ad esempio politica. Giovanni Falcone scrisse:

«Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio.»

Il filosofo Manlio Sgalambro di Lentini, autore insieme a Franco Battiato, dell'opera lirica “Il cavaliere dell'intelletto”, dedicata a Federico II di Svevia, nell'introduzione “Teoria della Sicilia” afferma:

«Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l'estinzione. […] La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere. La storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori. […] La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell'arte quest'isola è vera.»

Il filosofo e giurista Yorck von Wartenburg, nel suo “Diario Italiano”, del 1927, fa anche lui risalire il discorso all’evoluzione storica della Sicilia, quale causa prima dell’immobilismo della società siciliana odierna. In maniera molto esplicita e piuttosto chiara, egli afferma che, caratteristica della sicilianità è la sua astoricità; un problema dovuto alle frequenti invasioni di un territorio che non è mai stato assimilato al resto della Penisola o in altri Regni a cui venne, di volta in volta annessa:

«… La specificità interna del siciliano mi sembra l'assoluta astoricità. Egli è il prodotto di un territorio… che non ha mai fatto parte di alcuna parte del mondo in epoca storica, che è stato occupato da nord, sud est, ma mai è stato assimilato. L'isola in cui niente è stabile se non il movimento, il non-stabile, dove un giorno distrugge quanto l'altro giorno ha costruito, dove vulcanismo e nettunismo sono continuamente all'opera. »

Gesualdo Bufalino, scrittore e poeta di Comiso, fu un grande conoscitore della Sicilia e della sicilianità. Nel suo scritto “L'isola plurale”, delineò poeticamente le caratteristiche e le tendenze del siciliano:

«[…] Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell'angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»

In questo scritto egli parla di ‘tante Sicilie’, nate da ragioni storiche e geografiche:

«Tante Sicilie, perché? Perché la Sicilia ha avuto la sorte ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d'identità, né so se sia un bene o sia un male. […] subentra presto la sofferenza di non sapere districare fra mille curve e intrecci di sangue il filo del proprio destino.»

Per Bufalino, la sicilianità non può che essere enormemente influenzata dalla conformazione geografica della regione: un appezzamento di terreno staccato dalla terraferma, che è dunque per gli abitanti desiderio di fuga e voglia di restare insieme, tana e vizio. Perché la condizione di ‘insularità’ non ha solo a che fare con una sorta di isolamento o claustrofobia geografica, ma anche con una segregazione di tipo culturale, familiare, emotiva.

«[…] Da qui il nostro orgoglio, la diffidenza, il pudore; e il senso di essere diversi. […] Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. […] Da questa soperchieria del morire prende corpo il pessimismo isolano, e con esso il fasto funebre dei riti e delle parole; […] Si tratta di un pessimismo della ragione, al quale quasi sempre s’accompagna un pessimismo della volontà. […]»

Fino a quel pessimismo cosmico che sembra caratterizzare gli abitanti e incastonarli in quell’immobilità dove tutto si scioglie solo davanti alla partita, alla Messa, o al gustoso cibo tipico, e persino alla Mafia, non come elemento celebrativo della propria identità, ma come elemento che integra e unisce i suoi abitanti sotto un unico simbolo, sotto un’unica realtà storica e culturale che li contraddistingue e li separa dal resto d’Italia.

Lo scrittore Andrea Camilleri nel romanzo “Il ladro di merendine” scrive:

«Montalbano si commosse. Quella era l'amicizia siciliana, la vera, che si basa sul non detto, sull'intuìto: uno a un amico non ha bisogno di domandare, è l'altro che autonomamente capisce e agisce di conseguenza.»

È questo continuo conflitto interiore, questo continuo sentirsi ‘uno, nessuno e centomila’ che caratterizza i suoi abitanti; abitanti che non vorrebbero ma si sentono diversi, e quindi forse, per questo, rimangono immobili a guardare la Storia.

Paolo Isotta scrive:

«Ha insegnato Leonardo Sciascia che la Sicilia non è una. Ne esistono molteplici, forse infinite, che al continentale, forse al Siciliano stesso, si offrono e poi si nascondono in un giuoco di specchi.»

Autore | Enrica Bartalotta

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