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Riceviamo e pubblichiamo l’interessante riflessione del prof. Luciano Sesta, docente di filosofia del diritto all’Università degli Studi di Palermo, a proposito dell’odio scaturito dopo i tragici fatti di quello che ormai è ribattezzato da ogni giornale con il titolo “Stupro di Palermo”.

Ha tanto scandalizzato, in questi giorni, l’uscita di un libro accusato di voler diffondere un nuovo ripugnante diritto, il “diritto all’odio”.

Un diritto di fronte al quale tutti si ritraggono indignati e che nessuno mai si sognerebbe di rivendicare, ma di cui, dopo i fatti del Foro Italico di Palermo, in tantissimi si stanno avvalendo in questi giorni. Sui social, e persino in alcuni media più istituzionali, si assiste a un’ondata di odio “buono” verso i cattivi: dall’augurio di “morire dissanguati” o “impalati”, a più “miti” appelli alla “giustizia privata”, alla “castrazione fisica” o a organizzarsi per “prenderli a sprangate”.

Anche fra i miei contatti trovo un numero impressionante di persone che, invece di rivolgere una parola di solidarietà alla vittima, ha preferito sfogare tutta la propria rabbia sui colpevoli. Come se avessero più bisogno loro di insulti che lei di conforto. È un fenomeno culturale insieme interessante e preoccupante. Viviamo in una società che dà più importanza all’odio che alla compassione, alle colpe dei carnefici che al dolore della vittima, alla vendetta che alla solidarietà. Per questo siamo più interessati a far soffrire i colpevoli che a confortare la vittima. Fino al punto di non farci scrupoli di passare sopra la vittima “pur” di colpire i carnefici, come ha fatto Ermal Meta su Twitter.

Il cantante si è augurato un pubblico linciaggio per i sette giovani, perché il dolore di uno stupro “dura per sempre”. In effetti, solo se un danno è irreversibile si può giustificare una punizione così severa per chi lo ha provocato. Forse però fa più male alla ragazza sentirsi dire che non si riprenderà mai più che far bene a quei ragazzi sapere che qualcuno potrebbe “giustiziarli” per strada. Evidentemente qui si ritiene più importante minacciare il senso di impunità degli stupratori che dare una speranza di rinascita alla loro vittima. Ci troviamo immersi in una cultura confusa e disorientata, che ci ha abituati a reagire senza pensare, e in cui paghiamo questa immediatezza con l’incoerenza: non si può condannare a parole la violenza e poi invocarla come unico rimedio all’incapacità della “giustizia” di fare realmente “giustizia”.

Dimenticando che non c’è solo la giustizia “retributiva” o “punitiva”, ossia la giustizia che a tanto di colpa fa corrispondere tanto di pena. Esiste anche la giustizia “riparativa”, dove “riparare” non significa semplicemente “rieducare” il colpevole, ma anche restituire alla vittima ciò di cui è stata ingiustamente privata e di cui ora ha bisogno. Di fronte a certi drammi essere “giusti” significa non solo “punire”, ma anche “consolare” e “sostenere”.

Rispondere a una grave ingiustizia con rabbia e indignazione è legittimo e persino doveroso. Ma non bisognerebbe mai confondere la rabbia e l’indignazione con l’odio vendicativo nei confronti del colpevole. Farlo significherebbe cadere vittime di quella stessa violenza che si vorrebbe combattere.

Il potere della violenza è infatti un potere di “contagio”: la sua vittoria sta nel costringere chi la combatte a farne uso. Se i sette giovani o anche alcuni di essi subissero realmente un linciaggio, è probabile che la cosa non finirebbe lì, come già hanno fatto intendere le “minacce” rivolte alla ragazza affinché non sporgesse denuncia. Si entrerebbe in quella che gli studiosi chiamano la spirale mimetica della violenza: violenza chiamerebbe violenza, in un crescendo distruttivo di odio, sofferenze e vendette sommarie. Fare giustizia, in questo gioco perverso, significa interrompere la spirale”.

Foto da DepositPhotos.