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libro

Il diario di una settimana avvincente e commovente 
di Maria Cinconze   

Può bastare una settimana a racchiudere un’intera esistenza, o perlomeno le tappe decisive di una vita? Maria Grazia Lala ci dimostra che è possibile, e attraverso il suo racconto Era un lunedì (Pungitopo, pp. 58, € 8,00) ci regala uno scorcio della Sicilia che emigrava (e che emigra) per lavoro o per seguire gli affetti.

In sette giorni di sette anni diversi, Ninetta, protagonista e “motore” della narrazione, ripercorre i momenti che hanno segnato il suo passato di ragazza semplice dell’entroterra siciliano, che dopo il matrimonio si ritrova scagliata nella Capitale, in un periodo affatto lieto come poteva esserlo quello del Secondo Conflitto Mondiale.

 Sono gli anni della guerra, amari e pieni di contraddizioni, e se da un lato confondono, d’altra parte spianano la strada a ricordi che fanno riemergere i tasselli di una realtà lontana sì, ma sempre vivida in quanto autentica.

Il tempo e lo spazio della narrazione non conoscono barriere: ciò che accade nel presente è solo un pretesto per dare libero spazio all’onda della memoria. Anche se i giorni presi in considerazione sono pochi e ricoprono un arco temporale che va dal 1940 al 1946, le vicende narrate sono le più disparate perché riguardano non solo la protagonista e i suoi familiari, ma anche semplici conoscenti, compaesani le cui vite sono state segnate da eventi singolari, tanto da diventare esempio per le generazioni future che se le tramandano attraverso il “cunto”, elemento di cui la tradizione orale si è servita per far sì che non andassero perdute le radici delle popolazioni più o meno note, ma pur sempre meritevoli di essere ricordate. In questo caso più che mai sono terreno fertile per la narrazione che si dipana in un gioco di ricordi e fantasie.

Continuamente Ninetta si ritrova a contrapporre le “stranezze” che incontra nella sua nuova vita con le vicende che hanno colorato la sua infanzia e la sua adolescenza trascorse in paese. Ogni piccolo dettaglio, che ad un occhio superficiale potrebbe passare inosservato o sembrare assolutamente banale, per Ninetta diventa il pretesto buono per creare bizzarre assonanze che trasudano una commovente ingenuità. «Rideva quando sentiva per strada “Ma va a morì ammazzato”. “Ma com’è” – pensava lei – “Lo dicono come un augurio”», mentre al suo paese un uomo era stato veramente ucciso nei campi, la moglie lo aveva cercato per un giorno intero e ora, dopo quattro anni dall’«ammazzatina», i cinque figli che aveva lasciato erano ancora vestiti di nero. Allo stesso modo Ninetta, pensando alla figlia dei suoi vicini di casa, che si chiamava Libertà, si trova a riflettere: «non capiva se Libertà era un nome straniero o ridicolo», visto il divieto stabilito dal regime di imporre, per l’appunto, nomi stranieri o ridicoli…

Ma il velo di amarezza, che si percepisce appena, non turba l’animo e ad ogni modo non copre la speranza nemmeno quando si parla di discriminazioni razziali, perché per Ninetta, che a Roma ha stretto subito amicizia con una famiglia di ebrei, la questione è “facilmente risolvibile” e al marito Tano, che affronta con lei l’argomento, risponde: «Ora ci insigno l’Ave Maria Grazia Plena… dominum tecum per dire il rosario», e quando si parla della legge sulla razza, continua: «Gli ebrei sono di un’altra razza? O Mussolini ci fa la guerra perché misero a Cristo in croce? Ci pensa ancora? Sai quanti cristiani mettono in croce altri cristiani, ebrei, turchi».

Anche la guerra assume connotati puerili agli occhi della protagonista: «continuava a pensare ai combattenti che Mussolini aveva chiamato di terra, di mare. Gli unici combattenti che le venivano in mente erano Carmelino, un fratello di Tano, e Badassano che quando erano nichi con dei pezzi di legno passavano i pomeriggi a rincorrersi e a darsi mazzate» e, mentre pensa ai combattenti, le viene in mente la madre: «anche lei combatteva. Combatteva con la vita di tutti i giorni».

Quello che potrebbe sembrare un modo per alleggerire se non addirittura banalizzare le tematiche affrontate nel racconto, è in realtà un ottimo espediente che riesce ad appassionare il lettore, fortunatamente distante dalle problematiche relative agli anni che fanno da sfondo alle vicende narrate, fino a farlo entrare in totale empatia con i personaggi che animano la storia. D’altronde si tratta di persone comuni, con cui ognuno è portato ad identificarsi proprio perché contraddistinte dalla genuinità della gente comune.

Oltre a Ninetta e Tano, protagonisti della storia, c’è il parroco del paese, monsignore Ciaravella, che «per la cerimonia dello sposalizio alla matrice aveva fatto una bella predica», le cui parole sarebbero rimaste impresse nella mente di Ninetta, tanto da rappresentare il suo primo pensiero quella mattina in cui aveva vomitato seppur non avesse mangiato nulla, dopo giorni in cui si era sentita particolarmente stanca: «Certo! Mons. Ciaravella nella predica aveva detto “Se Dio vorrà nella Sua Provvidenza”».

Troviamo poi «il Medico» che, chiamato per la prima volta dalla madre di Paolina, una delle vicine del paese, mentre afflitto comunica alla donna che la figlia ha contratto la poliomielite e che l’unica cosa che lei possa fare è pregare, allo stesso tempo ripensa a quel villano che tutti in paese chiamavano “la bestia” perché era solito dire «Beniditta quella porta dove n’esce una figlia fimmina morta». C’è ancora Bartolo, al quale «la sifilide aveva mangiato il cervello» e anche «dra ngrasciata» di Saveria: insomma, a Maria Grazia Lala bastano poche pennellate o qualche battuta incisiva per riuscire a delineare chiaramente ciascuno dei protagonisti delle sue storie.

Il “collante” delle molteplici realtà presenti nel racconto risulta essere la storia d’amore dei due giovani Ninetta e Tano. Una storia che non ha nulla della passionalità travolgente di molte eroine, ma che non per questo manca di attrattiva. Improntata sulla tenerezza di due animi semplici, ha come presupposto una quota maggiore di coraggio e di pazienza, come tutte le storie nate da uno sguardo e coltivate nell’assenza dell’altro e poi subito suggellate dal matrimonio. Anche se i due sembrano a volte lontani nei ragionamenti che portano avanti con uguale caparbietà, c’è un’idea di fondo che li unisce ed è quella della famiglia intesa come solida unità. Lo stesso modello su cui sono cresciuti è ora l’obiettivo che deve essere mantenuto, nonostante la diversità dei caratteri e i piccoli incidenti di percorso!

Per cui il lettore si sentirà sollevato quando si renderà conto che, malgrado Tano abbia quasi preso l’abitudine a concludere le sue discussioni con la moglie con la solita cantilena: «ah Ninetta bella, la meglio sei tu… che non capisci niente!», per lui è sempre «una brava fimmina» e allo stesso modo Ninetta si sente fortunata perché «guardava Tano e sentiva alla bocca dello stomaco un calore che le saliva alla gola. Ancora dopo sei anni di matrimonio Tano le pareva il meglio di tutti. Non per tutte le fimmine era andata così».

Fonte: http://www.pungitopo.com/lala.html

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Maria Grazia Lala (Palermo, 1954) dopo la laurea in giurisprudenza ha maturato diverse esperienze professionali. Ha iniziato a Torino per il Ministero degli Interni, poi si è trasferita in Veneto. Supera il corso della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e ad ottobre del 1984 si trova in servizio a Roma quando, a seguito della sentenza che vietava l’interconnessione televisiva oltre l’ambito locale, l’Ispettorato dell’allora Ministero delle Poste e Telecomunicazioni oscurava le reti Fininvest. Dal 1998 è responsabile dell’Ufficio Comunicazione in Sicilia.
Ha iniziato a scrivere brevi racconti pubblicati nel periodico d’informazione locale “Cittàmia” per la diffusione della cultura della legalità e del riequilibrio delle disparità sociali.

Articolo, Gazzetta_13_09_12