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Chi era Gianfilippo Ingrassia? A questa domanda, apparentemente semplice, risponde Gaetano Basile. Lo storico e giornalista palermitano racconta la storia di questo medico, vero e proprio luminare dei suoi tempi, di come salvò Palermo dalla peste e di come, purtroppo, il suo insegnamento rimase in parte vano.

Gianfilippo Ingrassia cura Palermo dalla peste

L’occasione per poter fare questo interessante viaggio nel tempo ci viene offerta da uno degli interventi di cui Basile è stato protagonista nell’ambito del Festival RestART. Durante una serie di appuntamenti all’Archivio Storico di Palermo, ha dedicato tanti approfondimenti al capoluogo e alle sue peculiarità.

Partendo da “Palermo e il suo mare” e passando attraverso monti e fiumi, siamo arrivati a “Palermo e Santa Rosalia“. Per poter parlare della patrona della città, però, non si possono non chiamare in causa una serie di aspetti fondamentali della storia e dei luoghi.

Siamo nel 1575, anno in cui “un medico favoloso curò la peste. Prese gli opportuni provvedimenti e i morti furono pochissimi. Quel medico di chiamava Gianfilippo Ingrassia”, esordisce Basile. “Protomedico del regno, insegnò all’Università di Padova. Una persona istruita, preparata che, ai primi sintomi della pestilenza, creò subito i lazzaretti. Fece bruciare la roba infetta, fece bruciare cani e gatti, perché aveva capito che il microbo della peste bubbonica si nascondeva tra il pelo degli animali a sangue caldo”.

Grazie a questi provvedimenti, si riuscì a contenere enormemente il numero dei morti. Ma il contributo di Ingrassia non si fermò certo qui: “Dopo la peste”, continua a raccontarci Gaetano Basile, “scrisse una lettera al Senato di Palermo, cioè al Comune di Palermo, dicendo chiaro,  nero su bianco (in un documento ancora conservato, ndr): ”Per questa volta ce l’abbiamo fatta. Però è bene fare attenzione perché i giovani medici che ho dovuto approvare sono scarsi per lo poco studio che fanno. Alcuni sanno appena leggere e scrivere e quindi si prospetta un momento triste per l’avvenire più immediato”.  E difatti sante parole. Arrivò la peste dal 1624 e i medici non presero nessun provvedimento, non ne capirono un accidente”, aggiunge Basile.

Ma come arrivò la peste? Gli avvenimenti sono tutti riportati tra gli atti del Comune, che lo storico palermitano ha consultato: “Della peste se ne parlava già da due anni. Ci sono dei documenti in cui si afferma che già nel 1622 era scoppiata una pestilenza gravissima in Barbarìa, in Tunisia, e che bisognava fare la massima attenzione per evitare il contagio. I provvedimenti furono immediati, fu proibita l’importazione di paglia, fieno e avena dalla Tunisia, ad esempio”.

Nonostante questo, nel 1624, una nave aveva potuto eludere il blocco navale. Era la nave “delli redenti”, cioè che riportava in Sicilia dei siciliani presi prigionieri dai corsari tunisini e per i quali era stato pagato un riscatto”.

Per prima cosa, questa nave, fece tappa a Trapani, dove, racconta Gaetano Basile, dissero subito: “Fate attenzione perché questa nave è diretta a Palermo però, assieme ai redenti, trasporta cuoi non lavorati, avena, datteri e un sacco di altre cose. E trasporta pure la peste perché viene da una regione appestata”.

La nave arrivò in porto, dove ci fu un secco diniego all’attracco. Il comandante della nave che, “stando alle carte si chiamava Maometto Calavà“, disse che sapeva come fare a entrare. Incontrò il viceré dell’epoca “con tanti ricchi doni, cioè la mazzetta”.

Sta di fatto, dunque, che la nave sbarcò e, dopo tre giorni, la peste invase Palermo. I primi casi si registrarono in una traversa di via Alloro, poi si allargò a macchia d’olio, anche perché nessuno aveva fatto nulla per proteggere i cittadini e la città. La peste bubbonica si propaga attraverso peli e carne calda: i bubboni nel giro di quattro-sei giorni portavano alla morte.

“I medici erano scarsissimi. L’unica cosa che riuscirono a inventare fu una specie di maschera con una specie di becco d’uccello entro cui si tenevano delle sostanze che dovevano servire a facilitare la respirazione senza beccarsi il virus. Naturalmente la peste dilagò”, conclude Basile. Per cercare di fare fronte a questa tragedia, Palermo invocò i suoi Santi protettori, che sono ben 91.

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