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capretto
I bambini africani riscuotono sempre un grande successo. Sono belli, non c’è che dire, ecco perché tutti quanti se ne innamorano. Quegli occhi grandi ed espressivi, quei sorrisi accattivanti, quelle testoline ricciute: è impossibile non amarli. Quante volte ci chiedono cosa si prova a essere attorniati da un nugolo di bambini neri, vocianti e ridenti, che ti chiamano, ti tirano, ti prendono la mano. E quante volte ci chiedono, addirittura, come si fa ad averne uno. In tanti si dichiarano disposti ad adottarne uno. Alcuni pensano che basti andare lì, in Africa, per tornare con un bel bambino nero sotto braccio, tipo al discount.
E tutte le volte che sento questi discorsi, tutte le volte che vedo questi slanci di amore incondizionato verso i bambini neri, io penso a Miss Ethel Holloway.
Certo, è probabile che non si conosca la signorina in questione. Del resto non la conoscevo neanche io prima di leggere Il capretto nero, una divertente novella di Luigi Pirandello, mio illustre concittadino – il più famoso dopo il ministro Alfano. Miss Ethel, quindi, è la “giovanissima e vivacissima figlia di Sir W. H. Holloway, ricchissimo e autorevolissimo Pari d’Inghilterra”, venuta in vacanza a Girgenti, dove poté ammirare le bellezze della nostra città – che tuttavia Pirandello descrive come molto misera, già un secolo prima della classifica del Sole 24 ore. L’inglesina, quindi, si innamorò perdutamente di un capretto nero, una vivace bestiola che allegramente trotterellava, anzi springava “come se per aria attorno gli danzassero tanti moscerini di luce”, in mezzo al gregge che il caprajo, “bestiale e sonnolento come un arabo”, portava a rugumare tra le rovine di un tempio dorico, cosa che Mr Charles Trockley, vice-console d’Inghilterra a Girgenti, giudicava come profanazione. Ebbene, tanto fu l’amore subitaneo che la ragazza provò per la bestiola, che decise di comprarla e farsela inviare in Inghilterra. La spedizione dell’animale, per varie vicende – che Pirandello narra –, richiese quasi un anno, per cui, a quel punto, il graziosissimo capretto nero era diventato un caprone, un becco, “un orribile bestione cornuto, fetido, dal vello stinto rossigno”, che causò lo sconcerto della giovinetta e le rimostranze decise del di lei padre. Eppure era lo stesso animale.
E allora, dice, che c’entrava la storia dei bambini neri con quella del capretto? È simile. Tutti a squagliarsi davanti ai bambini neri: “ma quanto sono carini, che dolcezza, che tenerezza, che simpatia. Guarda che bella quella bambinetta nera. M’a mangiassi a muzzicuna. Come si fa ad averne una? Ne vorrei uno a casa mia. Me lo prenderei uno, che ti credi? Ho questo desiderio.”
Fatto sta che il desiderio di molti di avere tanti bei bambini neri alla fine viene esaudito. I bambini neri vengono davvero qui da noi, dopo una quindicina, una ventina di anni. Ma nessuno li riconosce più. Non riconoscono più il sorrisino furbo del bambino del Senegal nel ragazzone che chiede di comprare un accendino; né lo sguardo vispo di un bimbo nigeriano nelle lacrime del migrante che supplica il finanziere in guanti di lattice. Nessuno vede nella prostituta nigeriana la bella bambina sorridente che aveva visto in foto tanti anni prima e che voleva portarsi a casa.
Eppure sono le stesse persone.

 

 
 
Articolo del 1 gennaio 2010
Se volete leggere in originale e trovare altro consultate: "oltre girgenti"