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Agostino La Lomia: “Io lo ripeto sempre alle mie contadine: è giusto che siate toccate, ma state attente a scegliere la mano giusta”.

Fino agli anni Sessanta del Novecento in particolari situazioni di difficoltà ci si poteva rivolgere – soprattutto nei paesi dell’entroterra siciliano – a delle donne in grado di operare veri e propri “miracoli” come quello di portare all’altare personaggi “difficili”. Il barone Agostino La Lomia, eccentrico epigono di una delle famiglie più blasonate di Sicilia, le chiamava – con una espressione canicattinese di plasticità plebea ma che ne chiarisce con tutta evidenza il significato – “li ‘ncucchia viddichi”, coloro che uniscono gli ombelichi… e altro.

In altri paesi queste donne “benemerite” erano chiamate sensali dei matrimoni, mezzane dell’amore o meretrici dei matrimoni “portati” o combinati. Erano squallide paraninfe “a pagamento ” di un amore privo di fremiti autentici e sorrisi veraci. Donne che – a giudizio di Agostino La Lomia – “rivivono inconsciamente le esperienze erotiche e sentimentali della loro giovinezza o prendono, per rifrangenza, quel che dalla loro giovinezza non hanno avuto… Gente entrata male nella vita perché non gradita al momento del connubio. Nata per caso, o per sbaglio se si preferisce, non realmente voluta nell’istante sublime dell’atto generatore: che è quello del pam-pam e via, senza freni ne’ incertezze. Così bisogna nascere per entrare giusti nella vita”.

La “‘ncucchia viddichi” deve essere persona “ntisa” e cioè ineccepibile, di gambe buone e lingua lesta, esperta di intrighi. A lei si rivolgono i giovanotti sessualmente inibiti ma dotati di buone braccia per lavorare; i meno giovani di aspetto non gradevole ma ricchi; le donne zoppe, strabiche o con altre malformazioni; le ragazze fisicamente gradevoli ma povere in canna. Clienti fissi sono i vedovi e, soprattutto, le vedove, dette in dialetto “cattive” e cioè “contaminate”. Tutto può la “‘ncucchia viddichi” in cambio di un consistente “regalo”.

Tra le più celebri operatrici di matrimoni “portati” meritano particolare menzione Rosina Bruccoleri di Favara, Calogera Racalbuto di Palma di Montechiaro intesa “Lilla la Carcagnazza” e Caterina Ciolino di Terrasini.

Rosina Bruccoleri – settantenne, faccia rugosa e marroncina, denti lunghi e ingialliti – ha ingoiato più ostie in chiesa che pastasciutta con le sarde in casa sua. Recitando, a guisa di ritornello, “Gesù, Giuseppe e Maria vi dono il cuore e l’anima mia”, ha realizzato coi matrimoni una vera fortuna che ha investito nel mercato dell’usura, esercitata non tanto nel suo paese ma ad Agrigento. Voleva essere chiamata “Signorina” e, se qualcuno sbagliava, precisava risentita: “Signorina, prego”. Negava l’esistenza di matrimoni combinati: “Io, certe faccende tra uomini e donne le scaccio dai miei pensieri dal giorno che sono nata”. Un giorno, però, davanti a un parente si lascio’ scappare dei particolari sulle cifre pagate in queste circostanze: dalle venti alle centomila lire a seconda delle possibilità dei futuri sposi, arrivando anche al dieci per cento delle loro doti. I preti non erano di ostacolo… anzi! Se ne infischiavano, purché le cerimonie nuziali incrementassero la cassa della parrocchia e, agli occhi della gente, la meretrice apparisse una cattolica dalla vita ineccepibile e tutta incenso e giaculatorie.

A Palma di Montechiaro era una vera e propria istituzione Calogera Racalbuto, da tutti conosciuta con il soprannome di “Lilla la Carcagnazza”. Il suo agire divenne proverbiale al punto che una persona intenta a farsi gli affari degli altri si sentiva così apostrofare: “Non fare la Carcagnazza!”. Si trascinava per le strade tutta trafelata e quando si sedeva, facendosi vento col grembiule che sempre indossava, estraeva dal petto un’immagine della Madonna e la baciava furiosamente: “Vergine Santa, dillo tu che Lilla Carcagnazza si rivolge sempre a te prima di combinare un matrimonio. Io faccio solo quello che la Vergine suggerisce”. Ma, invecchiando, cominciò a far cilecca, confondendo le persone e non riuscendo a tacere nei momenti più delicati della “trattativa”. L’acuirsi dell’arteriosclerosi la portò a infastidire tutti con i frenetici baci inflitti all’immagine della Madonna.

Talora la Carcagnazza aveva operato dei veri miracoli, come quando si era rivolta a lei la mamma di una ragazza sorpresa dai vicini intenta ad osservare con partecipazione il coito di un gallo. La regola imponeva – alle ragazze che si imbattevano in scene di sesso tra galli, galline, gatti, cani e caprette – di allontanarsi subito e rientrare a casa dove, peraltro, da dietro una finestra, specialmente se fornita di “gelosia”, lo spettacolo poteva gustarsi meglio. La ragazza, di nome Sarina, ebbe difficoltà a sposarsi e, per far dimenticare il fattaccio, comincio’ a cibarsi di eucaristia, passando in chiesa molto del suo tempo, intenta a pregare. Tutti pensavano che non si sarebbe mai più sposata. Tutti tranne la Carcagnazza cui Sarina fu affidata dalla mamma, confidando in un miracolo dell’esperta “‘ncucchia viddichi”. La Carcagnazza istruì a dovere la ragazza, prima di presentarla a un giovanotto e, soprattutto, ai futuri parenti. Sarina si sposò ed ebbe tre figli: rimase in forma, mentre il marito si ridusse sdentato, con un rene e claudicante. Nella prima notte aveva urlato assatanata davanti al furore di lui. “È la innocenza di Sarina che si ribella alla pala del maschio”, sentenziarono i pettegoli che non riuscirono a prender sonno, asserendo che l’onore della ragazza era integro.

In quel di Terrasini svolse con profitto la sua attività di mezzana Caterina Ciolino. Di lei si ricorda in particolare l’abilità usata nella “sistemazione” di un caso davvero difficile: il matrimonio tra la quindicenne Caterina Siracusa e il trentacinquenne Emanuele Cassara’. Caterina, orfana di padre dall’età di cinque anni, a sei anni fu mandata a servizio da una signora di Palermo anziché alle scuole elementari. Rimase così analfabeta e tornò a casa a dodici anni: “La signora mi picchiava con il manico della scopa. Un giorno l’ho detto a mia madre e la signora non mi ha più toccato. Una volta al mese mia madre veniva a Palermo e la signora le dava seimila lire a compenso del mio lavoro. Con quei soldi mia madre mi comprava le lenzuola per il matrimonio: la mia roba è chiusa qua dentro” e indicava un baule.

Su un mobile la fotografia di Caterina era incorniciata accanto a quella del suo fidanzato, Emanuele Cassara’, conosciuto da tre settimane grazie alla Ciolino. Si incontrarono solo due volte. Cassara’, di Partinico, aveva trascorso tutti i suoi anni nei campi e nelle stalle: anche a Natale e Pasqua. Piccolo e quasi scheletrico, puzzava come una bestia. Emanuele da Partinico giunse a Terrasini – con l’abito della festa e accompagnato dal padre e da due sorelle – per conoscere Caterina. Il colloquio, però, non si svolse con Caterina ma con sua madre.

“Hanno parlato un po’ con mia madre e mia madre ha detto che era contenta. Io non ho parlato, no; io stavo a sentire quel che dicevano. Dicevano che Emanuele zappa tutto il giorno, è un bravo ragazzo e in dote può portare della roba, un po’ di terra mi sembra”.

“M’e’ piaciuto. Ha detto subito che a luglio possiamo sposarci. Lui non ha detto niente che io sono povera, ha detto che vado bene così “.

“Lui ti ha detto quel che succede tra un uomo e una donna quando si sposano?”.

“Lui ha parlato solo con mia madre”.

“Emanuele ti ha dato almeno un bacio sulla guancia?”.

“Ma no. Lui parlava seduto al tavolo la’ in fondo, io ascoltavo seduta qua, sul baule. Quando e’ partito mi ha detto arrivederci: e arrivederci vuol dire che tutto è andato bene”.

La Ciolino negava di aver avuto quattrini per il suo meretricio a favore di Caterina ed Emanuele, mentre Caterina sosteneva che duemila lire, si, sua madre gliele aveva date e dopo sarebbe venuto il resto.

A Canicattì, invece, la funzione di paraninfo era svolta – tra gli altri – da Salvatore Asaro, inteso Turiddu, uno dei giardinieri di Villa Giacchetto del baroni La Lomia. Una volta – racconta il barone Agostino La Lomia – dovette faticare parecchio per arrivare alla conclusione: la ragazza era benestante ma fisicamente menomata e il ragazzo s’impuntava sulle pretese, esigendo che gli venissero intestati, prima ancora delle nozze, un paio di poderi: “Se lui è povero ma di bell’aspetto, oltre che senza vizi, e la ragazza ricca ma bruttarella, l’uomo tira calci come un somaro finché non lo hanno accontentato. Chiede la “cosa” di lei e le calze di seta insieme, come dice un nostro proverbio. E la famiglia di lei deve arrendersi se non vuole che la ragazza, ormai presa dalla voglia del matrimonio, minacci una qualche sciocchezza: come bere la varechina o la tintura di jodio. Peggio ancora quando la ragazza e’ benestante ma ha già assaggiato la pasta del topo, come a dire che non è più vergine. Allora le carte bollate diventano alte; così nel momento del contratto non fanno che scrivere, scrivere; prima di tutto l’uomo deve mettere sulla carta il giuramento che non dirà mai a nessuno di aver avuto una moglie già usata

E ancora il barone: “C’è anche il matrimonio combinato per la ragazza che è stata sorpresa mentre qualcuno la stuzzicava con la mano. Una delle peggiori disgrazie per le madri di qui è ancora quella di veder “scandagliare la figlia”, un uomo cioè che si mette a tastarla per sollecitarle il desiderio erotico. “Chidda e’ stata scannagliata”, dicono, sicche’ non è più pura, il suo corpo conosce già certe vibrazioni; meglio l’arnese, allora, che la massacri del tutto e a ciò in qualche modo si cercherà di porre rimedio. Tempo fa un ragazzo, detto Marrone per la sua pelle scura come una castagna, amoreggiava con la figlia di un mio sorvegliante agricolo. Nelle notti di luna lei si sedeva su un gradino dietro casa, senza le mutandine, e lui la scandagliava di sotto, con la testa. Il paese lo seppe, ma i due si sposarono e tutto finì nella gloria d’Ognissanti. Io lo ripeto sempre alle mie contadine: è giusto che siate toccate, state attente però a scegliere la mano giusta, che sia quella di un ragazzo che fa per voi e già promette di condurvi all’altare. Pitagora, il filosofo, diceva che finché la donna conosce un solo uomo è sempre pura, quando ne conosce due non lo è più. Il capriccio fatelo col cuore, ammonisco le mie ragazze, il matrimonio col cuore e con la testa…. Dico ancora: non abbiate paura di accoppiarvi a un uomo più grande di voi. C’è una regola anagrafica per la perfettta intesa sessuale: la donna deve avere la metà degli anni dell’uomo più sette. Cleopatra s’accoppio’ diciassettenne con Cesare che ne aveva cinquantasei. Fecero un figlio, Cesarione, ma non fu vera intesa. Il grande amore arrivò per Cleopatra quando comparve Marcantonio, che aveva quarantadue anni contro i suoi ventotto: giusto la metà più sette. Fu un innamoramento strepitoso, tale appunto da passare alla storia”.

“Non arrendetevi, dico alle mie contadinelle, a un matrimonio combinato con un tipo che magari ha passato la cinquantina, soltanto perché la famiglia vi indica in lui una fonte di benessere economico. Gli anni sessuali dell’uomo sono quelli con la erre, cioè dai trenta ai quarantanove. A cinquanta è invertito chi si vanta, dice un proverbio arabo; il furore erotico comincia a diventare memoria; dopo i Sessanta lascia la donna e prendi il vino. Le scruto a una a una, le mie coglitrici d’arance, cercando di carpire i loro segreti sessuali e aiutarle se è necessario. Anche alle maritate faccio un bel discorso: come sta il vostro sole? domando. Eh sì, perché l’uomo deve essere come un sole che riscalda ogni giorno la sua femmina. Come sta il vostro sole, dunque? E talune s’illuminano, tal’altre mi mandano a quel paese…”.

GAETANO AUGELLO

Da:REPUBBLICA DEL SERENISSIMO PARNASO CANICATTINESE

Foto: Lilla la Carcagnazza (Calogera Racalbuto) di Palma di Montechiaro.