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02Il siciliano è il risultato della fusione dei dialetti italo-romanzi che caratterizzavano le popolazioni della Sicilia, già prima dell’arrivo di Greci, e Romani.

La loro origine sembra essere di tipo indoeuropea, il che confermerebbe una natura totalmente distinta, del siciliano, dal volgare italiano. Secondo l’organizzazione Ethnologue, la sua peculiare struttura lo renderebbe un idioma a sé, e grazie a Federico II di Svevia è anche stata la prima lingua letteraria d’Italia.
Si presume dunque che il siciliano possa derivare direttamente dalla lingua elìma, utilizzata dal popolo che ne occupava la parte più a Occidente, sicula e sicana. Vengono considerate sicane tutte quelle iscrizioni non indoeuropee, che sono state ritrovate sull’Isola, ma per il tipo di struttura, si presume che furono la lingua sicula, di origini latine, e la lingua degli Elimi, di origini indoeuropee, a costituire il nucleo centrale portante del linguaggio siculo.

L’UNESCO ha riconosciuto al siciliano lo status di lingua madre, insieme ad altre lingue europee non a rischio di estinzione. Oggi, sono più di 5 milioni le persone che nel mondo parlano il siciliano; la maggior parte di loro è ovviamente dislocata nella Regione, ma vi è anche un numero imprecisato di cittadini statunitensi, argentini, australiani, canadesi, tedeschi e franco-belgi, i cui discendenti lo praticano ancora; negli Stati Uniti, nel corso della prima metà del XX secolo, si è persino venuta a creare una curiosa variante detta ‘siculish’, dalla sicilianizzazione di alcuni termini inglesi, utilizzata anche da Leonardo Sciascia nel racconto “La zia d’America”.

Nonostante il siciliano non sia stato esplicitamente riconosciuto come lingua, dalla Repubblica Italiana, è stata comunque oggetto di diverse norme regionali volte alla sua promozione e valorizzazione, all’interno delle strutture culturali e didattiche siciliane.
Nel 2012, dalla collaborazione tra Università di Palermo e Università di Rosario è nato il Centro de Estudios Sicilianos e l’istituzione di una cattedra di “Cultura e lingua siciliana”; l’organizzazione internazionale Arba Sicula, con sede a New York, annovera tra i suoi lavori la pubblicazione di una rivista bilingue (sia in inglese che in siciliano). Nel 2004, è stata creata una versione sicula di Wikipedia, oggi completa di ben 24.490 voci.
Data la posizione strategica dell’Isola, è evidente che anche la sua lingua abbia subìto diverse trasformazioni, nel corso dei secoli. Le diverse invasioni di fenici, greci, arabi e spagnoli, hanno dunque portato ad arricchirne il vocabolario e a cambiarne o acquisirne le forme grammaticali.

Le influenze più antiche sembrerebbero essere visibili oggi nei nomi attribuiti alle piante che popolavano, spontaneamente la regione; come ‘alastra’, che sta ad indicare genericamente una specie di leguminosa spinosa, oppure termini più tecnici che derivavano da quella che era la semplice vita contadina del tempo, e la spiegazione dei fenomeni che accadevano intorno a sé, come il termine ‘ammarrari’, che significa costruire un canale d’acqua o fermarne la corrente, oppure ‘calancuni’, un termine che sta ad indicare un’onda impetuosa o un torrente in piena.
Dopo le parole di origine latina, una delle influenze principali sulla lingua siciliana, è sicuramente rappresentata dalla lingua greca (per un 14,66%), approdata sull’Isola anche e con tutta probabilità,  tramite la dominazione Romana e Bizantina; alcuni esempi sono dati dai vocaboli ‘appizzari’ cioè appendere, attaccare, da ‘babbiari’ ovvero scherzare (termine che si trova anche nel dialetto calabro), e dal termine càntaru, ovvero ‘tazza’, esteso poi a catino o bacinella, (da kantharos), che ritroviamo anche, simile, nella lingua salentina. Persino il noto termine ‘caruso’ (ovvero ‘ragazzo’), sembrerebbe derivare dal greco (kouros); stesso discorso per ‘cammisa’, ‘tumassu’ (da cui il tumazzu, tipico formaggio siculo), ‘cirasa’, parola sicula che presenta similitudini anche nella lingua calabra e napoletana, e ‘chìanca’, che indica la macelleria (dal verbo greco ‘kiankeo’, macellare). Di origine greca sono anche diversi cognomi tipici siciliani, soprattutto di influenza dorica, come Alfeo o Alfei, Nunziato o Nunzi e Maffeo o Maffei, derivati normalmente da nomi propri di persona.
L’influenza araba è particolarmente persistente già a partire dalla dominazione Bizantina della Sicilia, voluta ed effettuata dalle armate dell’Imperatore Giustiniano I che ne fece sua provincia. Primo fra tutti è sicuramente il termine ‘partuallu’ (arancia), di cui si hanno forme simili anche nella lingua calabra e portoghese, che per alcuni sembrerebbe derivare dal greco ‘portokali’, mentre con tutta probabilità trae origine dal termine ‘burtuqal’.

Tra i vocaboli di origine araba ritroviamo forse quelli più noti del siciliano, anche al di fuori dei confini della Regione; forse perché furono gli Arabi ad occuparsi dello sviluppo, agricolo, urbano e dunque economico, dell’Isola, nella sua totalità. Dalla parola araba ‘harrub’, deriva infatti il termine carrubo (da cui probabilmente derivò poi il castigliano ‘algarroba’), la parola ‘cassata’, il ‘dammusu’ e la ‘giuggiulena’, che oggi dà anche il nome ad un tipico dolce calabro-siculo fatto a base di semi di sesamo. Dall’arabo derivano inoltre ‘favara’ (sorgente), da cui probabilmente deriverebbe il nome dell’omonima città sita in provincia di Agrigento, il termine siculo di ‘zaffarana’, da cui lo zafferano in italiano, e di ‘zibbibbu’, della nota uva introdotta proprio dagli Arabi, che dà origine al Moscato di Pantelleria. Da parole arabe derivano anche i nomi di alcune città sicule, come Calatafimi, Caltagirone, Caltanissetta, (tutte derivate dal termine ‘qalʿa’, ovvero cittadella, fortificazione), Marsala e Marzamemi; Giarre, Misilmeri, Racalmuto e Regalbuto, e alcune espressioni come ‘Mongibello’, nonché alcuni cognomi come Butera, dalla nota famiglia nobile che occupò alcuni feudi della regione, che si pensa possa derivare da un’italianizzazione del nome arabo ‘Abu Tir’ (padre di Tir); stesso discorso per i Gedda, toponimo della nota città dell’Arabia Saudita, e dei cognomi Fragalà e Zappalà, che dovrebbero originare dalla traslazione di alcune espressioni idiomatiche quali ‘gioia di Allah’ o ‘forte in Allah’, e del toponimo Sciarrabba, derivante dalla nota bevanda alcolica del ‘sarab’.

Dai franco-normanni, il siciliano ha mutuato diversi vocaboli, come ‘accattari’ cioè comprare, dal normanno ‘acater’ (da cui il francese ‘acheter’), che si trova anche nei linguaggi dialettali di altre parti meridionali d’Italia come la Puglia, la Calabria e la Campania, o ‘appujari’, cioè appoggiare. Stesso discorso per la ‘buatta’ (contenitore di latta o barattolo), usata ancora oggi anche nella lingua napoletana, ‘custureri’ (sarto), ‘firranti’ (grigio), ‘mustàzzu’ (baffi), da cui probabilmente deriva il termine mustazzolo, ad indicare il tipico dolce siciliano a base di vino cotto, sesamo, cannella, chiodi di garofano e pepe nero, che in Puglia viene preparato con mandorle, limone, cannella, farina e miele, e che si prepara, con ulteriori varianti, anche in Calabria e Campania; il termine ‘raggia’ (rabbia), anch’esso condiviso con altre lingue del Sud, e il termine ‘travagghiari’, dal quale sorge il francese moderno ‘travailler’ e il castigliano ‘trabajar’.
Di notevole importanza è stata, per il siciliano, anche l’influenza lombarda, determinata dall’invasione normanna (ad opera di armate provenzali e piemontesi soprattutto), che hanno portato alla formazione dei cosiddetti dialetti galloitalici, che ancora caratterizzano le zone di San Fratello, Novara di Sicilia, Nicosia, Sperlinga e Piazza Armerina. Derivanti dal lombardo sono infatti i termini ‘soggiru’ (suocero), ‘figghiozzu’, e i giorni della settimana. La cosiddetta ‘Scuola poetica Siciliana’ ha poi subito una grande influenza da parte del provençal, grazie all’intervento di Federico II di Svevia, tra le cui parole principali ricordiamo esserci ‘addumari’ (accendere), ‘aggrifari’ (rapinare), ‘burgisi’, che era il termine con cui si definiva l’antico proprietario terriero siciliano, e ‘lascu’, cioè molle, largo.

Dalla dominazione aragonese derivano all’incirca 771 termini, tratti sia dal castigliano che dal catalano; un’influenza anche maggiore di quella della lingua greca, secondo il Dizionario Etimologico Siciliano di Salvatore Giarrizzo. Oltre al lessico, il siciliano è stato influenzato dallo spagnolo anche nella sua grammatica e struttura sintattica, che si riscontra nelle terminazioni verbali dell’imperfetto e del condizionale, ma anche in alcune espressioni idiomatiche e perifrastiche. Le parole più emblematiche sono sicuramente ‘tiempu’ (e tutti i termini simili come ‘vientu’, ‘chianu’), e il verbo ‘chiamari’ e simili. I termini presi in prestito dal catalano sono decisamente meno, ma comunque influenti: come ad esempio ‘abbuccari’, piegarsi, capovolgere (simile anche nel napoletano), ‘addunnarisi’, ‘stricari’ e ‘arriminari’, o ad esempio il verbo ‘dunari’, la cui coniugazione si mescola all’italiano ‘dare’, oltre alla ‘e’ originaria atona, così come appare nella parola ‘asempiu’. Non è inoltre da escludere che il pronome relativo e congiunzione ‘ca’, possa derivare dal catalano ‘que’.
Dal castigliano derivano invece noti vocaboli come ‘manta’ (coperta), ‘pigliari’ e ‘zita’ (fidanzata), dal toponimo spagnolo ‘cita’, che significa appuntamento.

Per quanto strano possa sembrare, vi è una piccola percentuale di termini siciliani, che, a causa delle migrazioni in massa effettuate tra la fine dell’Ottocento e la prima parte del Novecento, in zone di lingua Anglosassone, hanno subìto l’ingerenza di termini inglesi e americani. Il secondo periodo di contatto inevitabile, tra le due lingue, è ovviamente posto alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le parole a questo proposito, più utilizzate e conosciute, sono ‘firrabbottu’ (da ferry boat), ‘bissinìssi’ (da business) e ‘friggideri’.

Autore | Enrica Bartalotta

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