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Poste_Italiane_-_signIl 24 gennaio scorso il Consiglio dei Ministri ha varato i due decreti legge che avvieranno la procedura di privatizzazione di Poste Italiane ed ENAV. Poste Italiane, come tutti sanno, è la società per azioni che gestisce il servizio postale italiano; l’ENAV è l’Ente Nazionale per l’Assistenza al Volo. Ad oggi l’intero capitale delle due S.p.a. è detenuto dallo Stato Italiano tramite il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Con questa operazione lo Stato cederà a soggetti privati il 40 % di Poste (il 5 % del quale è riservato agli stessi dipendenti) e il 49 % di ENAV. Come si vede si tratta di una privatizzazione parziale, dato che il controllo azionario rimarrà saldamente in mano allo Stato, come è stato per ENEL, ENI, FINMECCANICA, ecc.. Come dichiarato dal Presidente Letta e il Ministro Saccomanni, lo scopo di quest’ultima privatizzazione è ridurre il Debito Pubblico. Il valore di Poste è stimato in 10-12 miliardi di €; quello di ENAV in 1,8-2 miliardi di €. Facendo due rapidi calcoli, il valore complessivo dell’intera operazione, nella migliore delle ipotesi, porterà nelle casse dello Stato poco meno di 6 miliardi di €. Peccato che a fronte di un Debito di quasi 2.100 miliardi di €, tale cifra, che rappresenta appena lo 0,28 %, risulta davvero insignificante. L’operazione diventa plausibile solo nell’ottica, davvero perversa nella sua intrinseca sudditanza, di dare un segnale “rassicurante”  di buona volontà all’Europa di iniziare un processo di consistenti dismissioni dell’appetibile Patrimonio Pubblico Italiano.

  Chissà se il decreto appena approvato e impropriamente chiamato IMU-BANKITALIA (per la disomogeneità di temi), rientra nella stessa perversa ottica. Certo è che ha fatto “incazzare” tanto i grillini e una consistente fetta degli italiani. Una rivalutazione da 156 mila € a 7,5 miliardi del capitale azionario posseduto dalle banche private italiane, senza alcun esborso da parte loro per questo aumento di capitale, come definirlo se non regalo? La norma poi che il capitale azionario di ogni azionista eccedente il 3% deve essere ulteriormente ceduto, potenzialmente anche a banche straniere, avvia di fatto il processo di privatizzazione di quote consistenti della Banca d’Italia. Ciò che fa ancora più tristezza è il modo inusuale di privare l’opposizione dei suoi strumenti ostruzionistici: l’inedita applicazione della cosiddetta ghigliottina. Poi addirittura inquieta il coro politico pressoché unanime di condanna della reazione, a loro dire scomposta e violenta, dei parlamentari del M5S. Certo, abituati a un ventennio di finte opposizioni, vedere ora una vera opposizione che si fa sentire in Parlamento, deve disturbare l’univoca sensibilità dei manovratori! Usassero la stessa sensibilità nei confronti del popolo italiano sempre più povero, avrebbero speso meglio questi 7,5 miliardi! Se questa è democrazia?

  Personalmente sono contrario alle dismissioni, che fra l’altro risultano quasi sempre essere delle svendite per favorire interessi particolari e non generali. Ideologicamente sostengo che un buon padre di famiglia non può vendere o, ancora peggio, svendere il patrimonio di famiglia per far fronte ai propri debiti: semmai dovrebbe adoperarsi per farlo fruttare meglio eliminando inefficienze, sprechi e corruzioni. Lo scopo delle vere privatizzazioni è quello di aumentare la competitività e l’efficienza del servizio erogato (anche se ciò costituisce l’implicita ammissione dell’incapacità a gestirlo). E’ chiaro però che privatizzare a metà non potrà mai raggiungere tali virtuosi obiettivi. I patrimoni pubblici italiani che forniscono prodotti e servizi quasi sempre sono dei carrozzoni per creare poltrone, stipendi clientelari e consenso elettorale: vedi Alitalia, ENEL, ENI, FINMECCANICA. Dunque, come può uno Stato, e cioè la politica che lo rappresenta, rimediare alla mala gestione dei suoi patrimoni che interessatamente essa stessa provoca, con delle privatizzazioni parziali che significano conservare il controllo unicamente per conservarne la gestione clientelare e quindi per continuare a rubare? In una logica di mercato le parziali privatizzazioni italiane, uniche nelle economie occidentali, non possono e non potranno funzionare, dato che resteranno condizionate dalla redditività di Stato e dai cappi vari per nulla confacenti al libero mercato.

  Dispiace dovere registrare per l’ennesima volta l’impotenza della nostra democrazia nelle decisioni più importanti per le conseguenze sul popolo italiano. Quanti italiani avrebbero voluto acquistare gli F35 (14 miliardi di €), o vedere continuare la TAV (per ora stimata circa 20 miliardi di €), oppure assistere al regalo vergognoso fatto ai gestori delle slot machine (98 miliardi di €)? Fa male vedere cedere quote importanti del nostro patrimonio, come quello di Poste ed ENAV, senza un vero utile scopo per gli interessi nazionali; male doppio se si considera non solo la dismissione in sé, ma quella privatizzazione parziale che contrasta coi principi più elementari dello stesso processo di privatizzazione e che serve unicamente a mantenere anche il controllo dello Stato sulle più becere prassi clientelari.

  Quando nel 1862 le Regie Poste Italiane vennero fondate come azienda autonoma che gestiva in monopolio i servizi postali e telegrafici per conto del nuovo Stato unitario italiano, probabilmente non si pensava a un simile controllo ma a come recapitare la corrispondenza in meno giorni possibile. Probabilmente con la prassi politica della Prima Repubblica, Poste Italiane lentamente si trasformò nel carrozzone pubblico inefficiente, scarsamente produttivo e dai costi elevatissimi per sostenere poltrone e stipendi clientelari. Poi nel 1998 il Ministero del Tesoro del Governo Prodi nomina Amministratore Delegato della neonata Poste Italiane S.p.a. Corrado Passera, che fino al 2002 col suo piano industriale basato sul taglio di personale (ne tagliò 22 mila unità) intese risanarne il bilancio (chissà perché si parte sempre dalla forza lavoro per risanare le aziende). La successiva precarizzazione dei contratti dei nuovi assunti, i crescenti casi di dimissioni per l’eccessivo carico di lavoro e per mobbing, fecero però mancare forza lavoro necessaria per rendere efficiente un carrozzone di per sé inefficiente quasi per definizione. I tagli di Passera sembrano proprio il classico rimedio peggiore del male. Nel 2002 viene nominato Ad Massimo Sarmi, che amplia la gamma di prodotti e servizi delle Poste Italiane, quali telefonia mobile ma soprattutto servizi bancari e assicurativi, grazie ai quali raggiunge i vertici europei nel realizzare utili in crescita, mentre il cosiddetto settore del “servizio universale” (consegna lettere e pacchi a un prezzo controllato) continua ad essere inefficiente e in perdita. Ciò è dovuto anche al fatto che Poste utilizza nel settore finanziario i suoi stessi dipendenti, assunti con contratti meno onerosi rispetto a quelli dei bancari, trasformandosi quindi in un settore competitivo. Di contro l’inefficienza e la non competitività del “servizio universale”, nonostante le compensazioni pubbliche che in altri Paesi europei non vengono affatto concessi,  è conseguente anche allo spostamento di parecchi dipendenti dagli sportelli postali a quelli finanziari. Secondo il Prof. Ugo Arrigo, docente di finanza pubblica all’Università milanese Bicocca, il governo avrebbe dovuto spezzettare i due settori per massimizzare i profitti della privatizzazione e della quotazione in borsa. La fretta lesionistica che Letta e Saccomanni stanno mettendo in questo ennesimo processo di privatizzazione all’italiana, appare solo funzionale al non voler perdere tempo nel contentare l’Europa, anche a discapito dell’interesse nazionale. Come al solito ultimamente: prima di tutto l’Europa!

 

Angelo Lo Verme