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"Sì, ho fatto uso di stupefacenti". Alla fine, dopo il gran parlare con tanto di misure del tribunale (leggi qui), Giuseppe Salvatore Riina lo ha ammesso. La cocaina, si apprende dal "Corriere della Sera" gli serviva "per far fronte a situazioni stressanti", ha detto il 23 novembre al giudice di sorveglianza. Suo padre se n'era andato da una settimana, Salvo aveva partecipato alla sbrigativa cerimonia della sepoltura nel cimitero di Corleone ed era rientrato a Padova, dove viveva in libertà vigilata. Poi l’udienza con annessa dichiarazione di responsabilità, sperando di evitare la revoca della misura assegnatagli con conseguente ritorno in una struttura detentiva. Niente da fare. Il quotidiano riassume così:

Riina jr, 40 anni, una pena già scontata di 8 anni e 10 mesi di reclusione per associazione mafiosa, è stato assegnato per un anno a una casa di lavoro. Una forma di reclusione attenuata, imposta dal giudice dopo la violazione degli obblighi a cui era sottoposto. A cominciare dalla frequentazione di pregiudicati con precedenti per droga; spacciatori, insomma. Che Salvo Riina ha giustificato con la tardiva ammissione di essere stato un tossicodipendente. «Ma ora non più», ha spiegato dopo essersi sottoposto a un monitoraggio delle urine (risultato negativo) e dichiarato disponibile a un’analisi dei capelli che tuttavia non è stata eseguita.

In una precedente udienza, a settembre, non aveva detto nulla di ciò che ha ammesso in seguito. Spiegando di aver taciuto per non creare dispiaceri al padre e al resto della famiglia. Ma ora che il boss è morto, e così la zia (sorella maggiore della madre) che l’ha accudito come una seconda mamma, il figlio del capomafia a sua volta condannato per mafia non aveva più motivo di negare. Anzi, giocando la carta della sincerità voleva scongiurare alla madre Ninetta – che ha l’altro figlio maschio ergastolano al «carcere duro» – il dolore di vederlo nuovamente rinchiuso. Senza riuscirci. Scrive il giudice: «Se obiettivamente si deve prendere atto di un percorso di autocritica di Riina, quanto meno limitato alla propria condotta di vita durante l’esecuzione della misura di sicurezza, non si possono non sottolineare la tardività dell’ammissione di responsabilità, i limiti del riconoscimento delle violazioni e il perdurante atteggiamento di mancanza di lealtà nei confronti degli operatori che l’hanno seguito nel corso della misura».