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01Caratterizza le coste scoscese di tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Forse però non tutti sanno che l’Opuntia ficus-indica, ovvero il fico d’India, è in realtà di origine messicane.

Pianta conosciuta già dagli Aztechi, che la ritenevano sacro, veniva utilizzata per la produzione del carminio, uno dei prodotti che gli Aztechi commercializzavano e per cui divennero famosi.
Il carminio è un colorante naturale, che si ricava dal corpo di un insetto, la cocciniglia del carminio appunto, che attacca la pianta dell’Opuntia. Una volta essiccata, la cocciniglia dava luogo ad un rosso scuro intenso che veniva utilizzato per tingere le stoffe.
Si suppone che la pianta arrivò nel Vecchio Mondo intorno al 1493, con la spedizione di ritorno di Cristoforo Colombo dalle Americhe. Ma, la prima descrizione dettagliata del fico d’India non ci pervenne fino al 1535, grazie allo spagnolo Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés e alla sua “Historia general y natural de las Indias”; ma fu Miller, nel 1768, a definire la specie Opuntia ficus-indica.

Viene definita una pianta succulenta arborescente, cioè grassa, che può raggiungere i 3-5 m di altezza. Il fusto è composto da cladodi dette pale: fusti di forma appiattita e ovaliforme, piuttosto larghi e anche piuttosto spessi che, unendosi gli uni agli altri formano delle ramificazioni. I cladodi assicurano la fotosintesi clorofilliana alla pianta, e dunque la sua sopravvivenza. Sono ricoperti da un sottile strato di cuticola a emissione cerosa che limita la traspirazione e rappresenta una barriera contro i predatori.

Le vere foglie hanno invece una forma conica e sono lunghe appena qualche millimetro. Appaiono sui cladodi giovani e sono càduche. Alla base delle foglie si trovano le areole (circa 150 per cladode), delle ascelle modificate, tipiche di tutte le piante appartenenti alla famiglia delle Cactaceae, la stessa del fico d’India.
Il tessuto dell'areola si può differenziare in spine e glochidi; può dar vita a radici avventizie, e quindi a nuovi cladodi o fiori. Anche il fiore, e dunque il frutto, è coperto da areole, da cui possono derivare nuovi fiori e nuove radici.
Le spine sono di colore biancastro, solide e sclerificate, ma esistono anche varietà di Opuntia senza spine. I glochidi invece, sono un tipo di spine lunghe solo pochi millimetri, sottili e di color brunastro, che si staccano dalla pianta molto facilmente mentre s’impiantano caparbiamente alla cute, dato che sono muniti di minuscole scaglie a forma di uncino. Sono sempre presenti, anche nelle varietà inermi di Opuntia.

Le radici dell’Opuntia non raggiungono grandi profondità, in compenso si estendono su grosse superfici. I fiori hanno stami numerosi e sepali poco vistosi, mentre i petali sono ben visibili e di colore giallo-arancio.

I fiori si generano sui cladodi che abbiano almeno un anno di vita, più spesso sulle areole situate sulla sommità o sulla superficie più esposta al sole. All'inizio, per ogni areola, si sviluppa un unico fiore: un cladode fertile può generare all’incirca una trentina di fiori.

Il frutto è una bacca carnosa, a cavità unica; possiede numerosi semi e un peso che può variare dai 150 ai 400 g. Il colore è differente a seconda delle varietà: giallo-arancione in quella sulfarina, rosso porpora nella varietà sanguigna e bianco nella muscaredda. La forma è anch'essa molto variabile, anche in rapporto all'epoca di formazione: i frutti precoci sono più rotondi, rispetto a quelli tardivi, che hanno invece forma più ovulare e allungata. Sono commestibili, e dolci.

Per la sua ottima capacità di resistere a climi molto caldi e a lunghi periodi di siccità, è una pianta particolarmente diffusa e coltivata nelle zone del mondo che vanno dal bacino del Mediterraneo a fasce più secche e aride più vicine all’Equatore.
Nell’Antichità, la pianta partì dal Messico per diffondersi rapidamente in tutto il Mesoamerica e quindi a Cuba, Hispaniola, e altre isole dei Caraibi, e da qui in Europa tramite Cristoforo Colombo. È verosimile che la pianta fosse stata introdotta in Sud America in epoca precolombiana: quel che sembra accertato è legato alla produzione del carminio, di cui anche gli Incas ne erano a conoscenza.

In Italia è particolarmente diffusa sulle coste di Calabria e Sicilia, specie quelle scoscese, presso le quali cresce spontaneamente. La pianta oggi è coltivata in numerosi paesi, tra cui: Malta, Turchia, Medio Oriente, e alcune zone dell’Africa e dell’America Latina, oltre ovviamente al Messico; ma è riuscita a raggiungere anche luoghi del Medio ed Estremo Oriente, fino all’Australia.

In Sicilia è Malta, il fico d’India è diventato, col tempo, elemento rappresentativo del luogo; data la sua costante presenza nella conformazione del paesaggio, fu logico il passaggio del fico d’India a numerose rappresentazioni letterarie e iconografiche dell’Isola.
Dal sapore dolce un po’ acidulo, e dalle proprietà vivamente rinfrescanti, questo frutto viene utilizzato per realizzare una serie cospicua di prodotti della cucina tipica. Come ad esempio marmellate e dolci, liquori, e dessert di vario genere, come la mitica granita, ma viene anche apprezzato così, mangiato freddo appena colto.
Di lui, non si butta via niente. In campagna le pale venivano usate nelle insalate, o per curare angine e febbri malariche; i fiori invece hanno ottime proprietà diuretiche.

Analogamente alle altre Cactacee, è dotata di un particolare metabolismo fotosintetico, che le consente l’assimilazione dell’anidride carbonica durante la notte, quando la temperatura è più bassa, comportando dunque una minor traspirazione e perdita di liquidi, e una maggiore efficienza d’uso dell’acqua. Non resiste alle zone i cui climi sono in grado di andare al di sotto degli 0 °C per molto tempo; a 6 si presenta il suo sviluppo ottimale.

In Italia, il 90% della superficie coltivata a fico d'India è localizzata in Sicilia, in particolar modo nella zona collinare di San Cono, sul versante sud-orientale delle pendici dell'Etna e nella Valle del Belice; il restante 10% rimane in Basilicata, Calabria, Puglia e Sardegna. Il panorama varietale vedono la coltivazione di tre specie distinte: la gialla (Sulfarina), la bianca (Muscaredda) e la rossa (Sanguigna). La cultivar Sulfarina è quella più diffusa e sottoposta a coltivazione intensiva.
La raccolta inizia ad agosto, ma in alcune zone anche in luglio, proseguendo poi fino a novembre.
I comuni di Roccapalumba (Palermo), San Cono (Catania) e Santa Margherita di Belìce (Agrigento), organizzano ogni anno, nel mese di ottobre, una sagra ciascuno in suo onore.

Autore | Enrica Bartalotta