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‘U pani câ meusa, italianizzato in “il pane con la milza”, è un esempio di tradizione gastronomica palermitana nel campo del cosiddetto “cibo da strada”. La pronuncia corretta in palermitano sarebbe “pani c’a miévusa” con un allungamento della sillaba “ie”.
Questa pietanza, tradizione esclusiva di Palermo, consiste in una pagnotta morbida (vastella), superiormente spolverata di sesamo, che viene imbottita da pezzetti di milza e polmone di vitello. La milza e il polmone vengono prima bolliti e poi, una volta tagliati a pezzetti, brevemente soffritti nella sugna. Il panino può essere integrato con caciocavallo grattugiato o ricotta (in questo caso il panino si dice maritatu, ossia sposato, cioè accompagnato da qualcos’altro), con limone o oppure semplice (schettu, ossia celibe, cioè solo).
Il meusaru si serve di un’attrezzatura tipica: una pentola inclinata, all’interno della quale frigge lo strutto mentre in alto attendono le fettine di milza e polmone che devono essere fritte solo al momento della vendita. Una forchetta con due denti serve per estrarre dall’olio le fettine fritte, che vanno scolate brevemente e inserite nella vastella, anch’essa calda, e per questo custodita sotto un telo. Il panino va servito caldo, in mano all’avventore, in carta da pane.
La maggior parte dei meusari sono ambulanti e si trovano in luoghi di mercato come la Vucciria. I più famosi sono l’Antica Focacceria San Francesco, che risale al 1834,  l’Antica Focacceria di Porta Carbone, la Famiglia Basile nel mercato della Vucciria, “Nni Franco u Vastiddaru” in Corso Vittorio Emanuele (angolo Piazza Marina), l’antico e caratteristico “Piddu Messina” nel corso Alberto Amedeo adiacente all’antico mercato del “Capo”. Infine, Nino u ballerino in Corso Finocchiaro Aprile (già Corso Olivuzza).

L’origine di questo panino sembra risalire al medioevo, quando gli ebrei palermitani, impegnati nella macellazione della carne, non potendo percepire denaro per fede religiosa per il proprio lavoro, trattenevano come ricompensa le interiora che rivendevano come farcitura insieme a pane e formaggio. Cacciati da Ferdinando II di Aragona detto il Cattolico, questa attività venne continuata dai caciottari palermitani. In realtà, il consumo di interiora, particolarmente diffuso a Palermo, è tipico di quelle comunità dove, al consumo di carne dovuto alla presenza di famiglie nobiliari, corrispondeva un utilizzo degli scarti della macellazione da parte del popolo.
A Palermo, accanto al panino con la milza, troviamo per strada anche il panino con panelle o crocchè (cazzille), la pizza-sfincione, le stigghiola, la frittola, il musso, il carcagnolo, la quarume, il polpo, l’aringa, e tutta una serie di pietanze da consumare in piedi: arancine, calzoni, spiedini, ravazzate.

Foto di Donatella Marsiglia