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A volte torno indietro con la memoria e mi sembra di rivivere una classica domenica di quaranta e passa anni fa. Papà spesso ci portava alla “marina”, che poi sarebbe il Foro Italico, dove sapevamo di trovare, con nostra grande gioia, le giostre (Gardaland ed Eurodisney erano ancora a decenni di distanza…). Quanti bambini palermitani si sono divertiti a quelle giostre!
La variante, sempre in zona, era rappresentata dalla passeggiata a Villa Giulia con la visita al mitico Ciccio, il vecchio leone che lì viveva in gabbia e che una volta, si diceva, aveva sbranato un incauto visitatore. Era pure d’obbligo un giro in trenino sotto l’occhio vigile del genitore.

Si tornava a casa pregustando il pranzo preparato dalla mamma e si scommetteva su cosa avremmo trovato: aneletti al forno? Pollo con patatine?
Il pranzo, a quei tempi, si consumava con il televisore spento, i programmi iniziavano nel pomeriggio. Papà, verso le tre meno un quarto, accendeva la radio e ascoltava “Tutto il calcio minuto per minuto” e per noi divennero familiari le voci di Bortoluzzi, Carosio, Ciotti, Ameri e così via. E così tutto lasciava pensare ad un tranquillo prosieguo di un pomeriggio di domenica…
Quando, inaspettatamente, suonava il cicalino del citofono! E cu è? Ma cu po’ iessiri?
E tra questi interrogativi qualcuno andava a rispondere: “Chi è? Ah, ciao! Che piacere! Salite, salite, secondo piano!”
Il malcapitato (o malcapitata) di turno non finiva di appendere la cornetta del citofono che già sbottava: “Minchiuni! Ccà sunnu! E finiemu ri cucinari!”
Frasi che lasciavano presagire ad una visita di qualche parente schiffaratu* che trascorreva la domenica andando di casa in casa, visitando amici e parenti.
A queste parole mio padre, intento a risolvere parole crociate de “La Settimana Enigmistica”, lasciava cadere la penna, si alzava di scatto dalla sedia e chiedeva: “Cu è? Propriu ast’ura ca mi staiu sintiennu i partiti?”
E se, magari, era in canottiera, eccolo che scappava nella stanza da letto per indossare una camicia e rendersi più presentabile.
Subito dopo l’apertura della porta di casa era un susseguirsi di baci, abbracci e allisciamenti vari.
E con caffettiera sul fuoco e biscottini a tavola ci si preparava a trascorrere il pomeriggio chiacchierando con i visitatori, parenti o amici che fossero.
Passato un certo orario, dal caffè si passava all’amaro Cora o al Rosso Antico (messo per un periodo al bando a causa del colorante E123).
Noi bambini credevamo di scansarci da queste incombenze familiari standocene a giocare o a studiare nelle nostre stanzette, ma evidentemente non era così…
“Toniiii! Maurizioooo! Marinaaaa! Venite a salutare! C’è la zia Cabbasisella e lo zio Schicchianespole, venite!”
E voi vedevate il Toni in questione che lasciava il suo bel da fare (giocare con i soldatini o leggere un fumetto) con l’aria di chi voleva dire: “Miiii! Per forza devo venire? Uffa!”.
Dovete immaginare che il corridoio di casa mia era lungo quasi venti metri, ma non era lungo a sufficienza per contenere la lunghezza della mia funcia*, tanta era la mia allegria nello svolgere quelle formalità parentali.
“Hiii! Ch’è fattu bieddu! Ma chi si fici granni!” e qua ci calavano un centinaio di “vasate a babbaluci”: “Pciù! Pciù! Pciù!.
Io, schifato dall’eccessiva saliva lasciata da quei baci, appena loro distoglievano per un secondo lo sguardo, prontamente mi pulivo con la manica della maglietta o della camicia.
“Quanti anni hai?”mi chiedeva la zietta.
E io dentro di me: “Ma, buttana ra miseria, si vinisti l’annu scorsu e ti rissi ca avieva ottu anni, uora, roppu un annu, quantu avissi aviri, vint’anni?”
E subito dopo le domande di rito: come andavo a scuola, se ero bravo, ecc. ecc., fino a concludere con la classica domanda che si doveva fare ad un maschietto: “E dimmi a zia, dimmi, e ce l’hai la fidanzatina, ce l’hai?”
Minchiuni! Poi dicono che ho in mente sempre una cosa, ma si rendono conto che venivo traviato già di “nicu ‘e nicu”*?
E intanto, parlando parlando, si avvicinava l’ora della cena.
Mio padre e mia madre si scambiavano occhiate furtive, della serie: “Ma ancuora mancu si nni vannu?”
E nervosamente sbirciavano il grande orologio a pendolo posto nella sala da pranzo e che, con i suoi rintocchi, scandiva le ore.
Don! Don! Don!
“Ah! Ma chi ura si ficinu?” Esclamavano con finta meraviglia gli ospiti.
A quel punto era d’obbligo la cortese proposta “Ma che fa, volete rimanere per cena?”
“No, Maria, non ti preoccupare, ho lasciato già tutto pronto, l’aiu sulu ‘a quariari!*”
E dentro i loro petti i miei familiari tiravano un sospiro di sollievo.
“Che peccato! – la voce tradiva il pensiero che altrimenti avrebbe detto “meno male!” – Magari la prossima volta mi avvisate prima e rimanete a cena, va bene?”
Iniziavano i saluti di commiato che, come minimo, duravano almeno un’altra mezz’ora!
Baci, abbracci, scambio di promesse sul vedersi quanto prima, quindici minuti nella saletta d’ingresso, almeno altri dieci minuti sul pianerottolo davanti l’ascensore e, infine, altri cinque minuti affacciati al balcone fino a vederli sparire dietro l’angolo della via…
“Amunì, conza a tavula ca tardu si fici! Botta ri sali a iddi!”
Così terminava quel pomeriggio di visita parenti, a quei tempi non esisteva Facebook e le chiacchiere si scambiavano in questo modo, ma vi posso assicurare che quelle chiacchiere si diffondevano velocemente nella stessa maniera!
Ma le visite, così come si ricevevano, così andavano ricambiate e questo, amici miei, era un altro dramma…
Infatti, capitavano di quelle domeniche che eravamo noi ad andare in visita presso parenti o amici, e le raccomandazioni iniziavano già a casa: “Vi raccomando, non toccate niente, state seduti e non chiedete niente, a meno che non ve lo offrano loro, siamo intesi?”
Iniziava il calvario di un pomeriggio noioso e palloso…
“Mamma, ma almeno ci possiamo fare accendere la televisione? Ci guardiamo qualcosa…”
“Non vi rischiate! Per educazione nelle case degli altri non si deve chiedere niente!”
Poveri picciriddi! Costretti a stare seduti su sedie da salotto così alte che i piedi non arrivavano a toccare terra!
“Chi vuonnu i picciriddi? Chi ci ramu, un pocu ri viscuotta? Ma chi su siddiati, ma chi annu?”
E che minchia dovevamo avere? Eravamo semplicemente tediati, annoiati, siddiati, in poche parole chi cazzi belli vunci!
Non vedevamo l’ora di tornare a casa e mai momento fu più bello di quello dei saluti, finalmente!
Queste cose, allora, erano motivo di grande seccatura.
Eppure, adesso mentre vi scrivo è proprio una domenica pomeriggio, un freddo pomeriggio di febbraio ed io penso a quei pomeriggi di una volta, ai miei genitori, alla mia vecchia casa natia e non posso fare a meno di pensare ad una cosa… Mi piacerebbe tornare indietro nel tempo, almeno una volta, e trascorrere il pomeriggio di una di quelle domeniche di quaranta anni fa.
Ciao Mamma.
Ciao Papà.

Toni Gagliano