Tra i tanti castelli siciliani che sono stati e continuano ad essere oggetto di studio, quello di Canicattì è uno dei meno conosciuti anche perché considerato di minore importanza rispetto ad altri, più illustri sia per forme architettoniche sia per vicende storìche. Pure questo castello, oggi distrutto ha origini leggendarie che ci riportano all'epoca della dominazione araba.
Un tempo completamente isolato essendo preesistente all'abitato attuale, sorge su uno sperone roccioso che per due lati digrada con ripido pendio verso un torrente oggi coperto. Di fronte al prospetto principale, alla distanza di circa cento metri e in asse col portone, vi è la Torre dell'Orologio di origine antica ma incerta, rifatta nel 1933 più alta di qualche metro, dove sono state ricollocate le due campane del secolo XVII con iscrizioni in latino che già si trovavano in quella antica.
Narra la leggenda che il Conte Ruggero, sconfitti gli Arabi nella battaglia di Monte Saraceno (Ravanusa) grazie all'apparizione della Madonna Immacolata, diede ordine di raccogliere le armi abbandonate sul campo e di portarle nel castello di Canicattì perché vi fossero custodite in perpetuo.
Leggenda assurda ma gentile, che, a parte l'evidente sentimento religioso, vuole spiegare l'origine dell'armeria di cui si parlerà in seguito,
Le notizie storiche, invece, ci danno per certa la notizia che nel secolo XIV era proprietaria del castello e del territorio annesso la nobile famiglia Palmeri di Naro, quando ancora l'uno e l'altro facevano parte del Demanio.
Nel 1448 Antonio Palmeri vende, per atto rogato in Not. Salvatore De Plaza da Naro e per il prezzo, dichiarato di 250 onze d'oro la sua terra e castello di Canicatti al nipote Andrea De Crescenzio, con la clausola che non si potesse rimuovere lo stemma dei Palmeri né dal castello né dalla Chiesa, cioè da quella che poi fu la primitiva Parrocchia, vicina alla Torre dell'Orologio e di cui non resta più alcuna traccia.
Andrea De Crescenzio, nuovo proprietario, fa domanda di fondare un nuovo paese attorno al castello. La sua domanda fu accolta e sancita in un documento che porta la data del 3 febbraio 1467, firmato dal Viceré Lupo Ximenes Marchese di Urrea.
Sorge, in quella stessa data, la nuova Università di Canicatti.
Successe ad Andrea De Crescenzio, in mancanza di eredi maschi, la figlia Ramondetta. Questa portò in dote il possedimento paterno al marito Calogero Bonanno che nel 1507 ne ottenne l'investitura baronale.
Da allora, e sino al 1819, il castello restò sempre incorporato nell'eredità spettante per diritto al primogenito di quella famiglia che fu insignita, con l'andare del tempo, di altri e ben più importanti titoli.
I primi Baroni curarono particolarmente questo loro primo feudo e alcuni vi abitarono per molto tempo, come il Duca Giacomo I, protettore delle arti e autore di una dotta monografia sulle antichità di Siracusa, morto nel 1637.
Sorto dal nulla il nuovo nucleo abitato con gente immigrata, il castello divenne quasi per diritto il fulcro della vita cittadina. In alcuni pianterreni ebbero sede le carceri baronali (in seguito al diritto d'Imperio concesso ai Bonanno), in un locale speciale. passavano gli ultimi tre giorni di vita i condannati a morte assistiti dai confrati di M. SS. delle Grazie detti i Bianchi, ivi alloggiavano — se forestieri – il Governatore Baronale e il Castellano. Infine vi si riunivano, prima deHa costruzione dell'antico «Archivio » (Municipio), la Corte Giurata e la Corte Capitaniale.
In tre grandi locali a pianterreno era custodita l'Armeria di cui abbiamo notizie sicure sin dalla metà del secolo XVI, e che si era venuta formando grazie allo sforzo continuo dì varie generazioni e con l'apporto di alcune eredità.
La sua dispersione, avvenuta dopo il 1827 per volere dei legittimi proprietari, venne erroneamente addebitata dal popolo a un Sindaco poco disposto a pagarne le spese di manutenzione.
Secondo un inventario del 1784 (un altro del 1793, sostanzialmente identico, si trova presso la Comunale di Palermo), era formata da un numero impressionante di pezzi rari e curiosi, compresa la spada tarsiata in oro che era appartenuta — secondo la tradizione — al Conte Ruggero.
Vi sì potevano ammirare circa 50 armature complete di Borgogna, uno scudo grande sbalzato con la storia degli Orazi e Curiazi, un altro tarsiato d'oro, l'armatura completa di un Duca di Savoia, numerose armi da torneo, elmi di diverse epoche, picche, alabarde, pugnali di Toledo, corazze e cosciali, due lanterne « alla turchesca», una spada detta «del Saraceno».
Non mancavano numerosi finimenti per cavalcature, giacconi di pelle di daino, scudi di legno di fico e perfino una grande macchina da orologio.
Le armi da fuoco, completate da numerose fiasche per polvere, erano rappresentate da un cannoncino di bronzo, da più di 200 archibugi, da un gran numero di pistole e carabine e da schioppi « alla calabrese ».
Nel 1819, essendo da pochi anni scaduto il vincolo feudale, tutto l'ex feudo — compréso il castello — fu ceduto in enfiteusi al B.ne Gabriele Chiararnonte Bordonaro. L'atto fu stipulato in Palermo presso il Not. Salvatore Caldara il 19 giugno di quell'anno. La consegna venne fatta in Canicattì il 9 gennaio 1820, per atto in Not. Giuseppe Caramazza. Dobbiamo a quest'ultimo documento la conoscenza sommaria della disposizione interna dei locali del castello, che non si rilevano da nessun altro documento facilmente accessibile. A pianta quasi rettangolare, il suo prospetto principale della lunghezza di circa m. 60, guarda verso Sud. Dal grande portone, che ne era l'unico ingresso, si accedeva nel cortile centrale dove era una cisterna e dove si affacciavano i locali di servizio e la grande sala di guardia. Lo scalone d'onore portava al piano nobile, composto prevalentemente da due grandi appartamenti: quello della Principessa e quello del Principe che comprendeva la camera d'angolo detta « della Cappella », destinata alle funzioni religiose.
I due appartamenti erano riuniti da un salone centrale che corrispondeva sopra il portone ed era decorato con affreschi e ritratti di personaggi della Famiglia Bonanno. Altri appartamenti, meno importanti e non sufficientemente descritti, tra cui una camera detta «La Credenza» ed altre per l'Amministrazione, aprivano le finestre verso Nord, cioè verso la parte del castello più fredda e meno gradevole.
Nello stesso anno 1820, essendo stato Canicatti elevato a sede di Giudicato di Circondario, si pensò di adibire una parte del castello a Tribunale. Ma dopo il sopraluogo eseguito da un ingegnere inviato dal Governo, l'idea fu scartata perché i locali visitati non erano in buone condizioni e troppo sarebbero costate le opere di restauro.
Nel febbraio del 1837, approssimandosi il pericolo del colera, il Consiglio Civico decise di requisire alcuni ambienti del castello perché all'occorrenza, servissero da ospedale d'isolamento.
Furono scelte alcune delle camere migliori, attrezzate alla meno peggio dopo acconci affrettati. Purtroppo, al principio dell'estate si sviluppò la tremenda epidemia e il Castello funzionò da Lazzaretto sino all'estinzione del colera, nell'ottobre del 1837.
In seguito, anche le carceri, per ragioni di sicurezza, vi "furono tolte nel 1866. Da quel momento si spegne nel grande edificio l'ultimo soffio di vita, e si accelera quel processo di rapida decadenza che ne prelude il disfacimento.
Pur tuttavia, un dipinto su lastra di rame eseguito sul posto nel 1868 ci mostra il castello apparentemente intatto in quello che fu il suo ultimo aspetto quando, in seguito a rifacimenti antichi di cui s'è perduta notizia, non mostrava più la sua forma originaria di roccaforte medioevale.
Venticinque anni dopo, nel 1893, il turista francese Castone Vuillier che visitò gran parte della Sicilia e pubblicò le memorie del suo viaggio, sostando per breve tempo alla stazione ferroviaria di Canicattì, osservava con senso di malinconia la desolazione del castello abbandonato e già in parte distrutto.
Oggi non esìstono neanche più le tracce della vasta cavallerizza, adiacente al corpo principale ma da esso separata da pochi metri, perché trasformata da poco in casa di abitazione dopo essere stata adibita per tanti anni prima a deposito municipale e poi a molino.
Quello che resta oggi del castello di Canicattì – Foto di Franco Di Caro