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Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 il terremoto del Belice provocò morte e distruzione in tre province della Sicilia. Il sisma, di magnitudo 6,5, ebbe un impatto devastante e la ricostruzione è un capitolo ancora aperto. Questa pagina di storia della nostra isola, lungi dall’essere dimenticata, rappresenta una ferita mai curata del tutto, come testimoniano le parole di uno dei sopravvissuti, Gaetano Santangelo, che oggi ha 88 anni.

Originario di Salaparuta, in provincia di Trapani, Santangelo è stato negli anni Sessanta l’unico portalettere della cittadina, e può raccontare cosa accadde e come venne vissuto il grave evento sismico. “Il terremoto? Difficile descriverlo, si vive e ti cambia la vita“.

Parlando con l’Ansa, Gaetano Santangelo racconta: “Iniziai a lavorare nel luglio 1961 prendendo il posto di mio padre a Salaparuta, per via delle salite, era difficile utilizzare la bicicletta, quindi a piedi ogni giorno percorrevo 13 chilometri”.

La ricostruzione è un capitolo aperto

Il bilancio del terremoto del Belice non è un mistero: 296 morti e oltre mille feriti, tra le province di Palermo, Trapani e Agrigento. I paesi di Gibellina, Montevago, Poggioreale e Salaparuta furono rasi al suolo. Danni enormi si registrarono a Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Scafani, Contessa Entellina, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi e Santa Margherita del Belice. Quasi 100mila persone rimasero senza casa. Oggi, a distanza di 56 anni, la ricostruzione è una questione aperta.

Gaetano Santangelo aveva 32 anni quando si verificò il terremoto: “Quel giorno era domenica, la prima scossa delle ore 13 l’avvertii mentre mi trovavo in campagna a fare la legna. Non pensavo fosse terremoto, solo arrivando a casa ho trovato la famiglia preoccupata. La seconda scossa nella notte, uscimmo fuori mentre ancora tutto tremava. C’era la neve e ci rifugiammo nella casa di campagna. Intorno solo morti e macerie“.

Molta gente si ritrovò senza casa, ritrovandosi a vivere nelle baracche: “Dovevamo stare poco, ci fu detto – racconta Santangelo – ma, invece, ci abbiamo abitato per 16 anni, crescendo i figli in ambienti stretti e angusti. Però è nelle baracche che abbiamo riscoperto la solidarietà dello stare insieme, tra persone accomunate dallo stesso destino”.

L’ex postino si è trasferito nel nuovo centro di Salaparuta nel 1982, insieme alla sua famiglia: “Qui la vita sociale è cambiata – ammette – perché la distanza fisica tra una cosa e l’altra ha posto una trasformazione delle relazioni. Oggi parlare di ricostruzione a 56 anni dal sisma è una cosa ingiusta, è tempo di chiuderla per non mortificare ancora noi abitanti di questo territorio”.

Foto evidenza: Civa61 – Own work, CC BY-SA 3.0.